L'amore sull'odio





Agli uomini  liberi



Se un uomo non è disposto

a correre qualche rischio per le sue idee,

 o le sue idee non valgono nulla,

o non vale niente lui.

Ezra Pound



Prefazione a cura di Linda T. e Giusy B.


“L’amore sull’odio” è la prima opera che viene pubblicata dall’autore, il quale si cimenta in “nuove forme artistiche” esprimendo una profonda sensibilità d’animo.

Tipico dell’uomo che ha bisogno di apprendere ed ha tanta voglia di donare e raccontare le proprie emozioni di vita agli altri, espone con incalzante coinvolgimento la convivenza di sentimenti talora contrastanti in ogni cuore.

Ester e Franz impersonano i protagonisti di un amore “difficile” nato e fiorito con presupposti carichi di tensione, ma così forte da non conformarsi mai alle circostante, sì da dimostrare che è possibile realizzare questo meraviglioso desiderio, nonostante i non pochi impedimenti.

Il romanzo, concepito con arte campanilistica originale, si ambienta nel periodo tra le due guerre mondiali, nel contesto socio-politico degli anni del nazismo e dell'odio per l'ebreo considerato come il “diverso” da sterminare.

L’attento e sensibile animo dello scrittore, attraverso una narrazione perfettamente adeguata che riesce a carpire interesse “suscitando la  speranza di un mondo migliore”, incarna perfettamente i temi fondamentali dell’ intenso racconto, che ha come unica pretesa, rilanciare l’importanza di quei valori che forse oggi stiamo gradatamente dimenticando.

Il titolo nasconde quel sogno né inverosimile né tantomeno utopistico insito in ogni anima, dove l'amore un giorno trionfi sull'odio, creando oceani di pace che sovrastino le abbondanti isole di guerra, desolazione, morte.

Non resta che appassionarsi al romanzo, “con la certezza che qualcosa può cambiare, e con l’affascinante obbligo di migliorare la nostra esistenza, troppo spesso grigia e resa opaca da inutili aspirazioni”.


  
Introduzione a cura dell’autore

 
Intendo  anteporre che non desidero parlare di politica e lascio infatti anche i miei ideali di bandiera al di fuori di un tema così serio e delicato.

     Credo che nessuna guerra, nessuna prepotenza, nessun potere, nessuna forza, di alcun colore politico, possa giustificare morte e sofferenza.

     Purtroppo le pagine passate e attuali, raccontano troppo spesso e per troppo tempo l’insaziabile sete di potere dell’uomo, e per raggiungere tale scopo di comando,  tutti i mezzi sembrano essere giustificati, come affermava il grande Machiavelli.

Tutto questo però è assurdo!

Com’è assurdo il fatto che i potenti difendano conflitti ricchi d’interessi lasciando in disparte o fregandosene altamente di guerre povere…

Un esempio? Bhè che ne pensate della guerra in Afghanistan o della più recente in Iraq….?

 ...E delle guerre civili in Africa?

Evidentemente ci esprimiamo su conflitti carichi di “personali” interessi da parte dei “grandi”, troppo divergenti tra loro…

Ma il problema più grande  è che non sto dicendo nulla di nuovo! È tutto risaputo, scritto e denunciato più volte … tuttavia tutto resta uguale, e se qualcosa  cambia  peggiora!

Tanto poi si vedrà…!

     Il protagonista di questo scritto è un nobile ideale: l’amore.

L’amore è l’arma più potente che esista al mondo!

Se tutti imparassimo ad usarla avremmo di certo più “kamikaze buoni” pronti a fare esplodere quella spinta contagiosa, la quale fa comprendere che l’uomo non è padrone dell’uomo, bensì suo simile e  fratello.

     Ci si potrebbe chiedere: “Ma il colore della pelle?! Questo dimostra che non siamo figli agli stessi genitori…!” Ma se proviamo a procurarci una ferita, il sangue che scorre nelle nostre vene è uguale per noi europei, come per gli africani o gli asiatici e gli americani!

Ciò dimostra che siamo figli dello stesso Padre: Dio… e che il colore della pelle, così come la struttura fisica, non è altro che un adattamento avuto nel corso dei secoli rispetto al clima e alle circostanze indigene di residenza!



Per amare bisogna essere liberi.

La libertà è un concetto molto ampio, che non si limita ad evidenziare solo uomini fuori dalle sbarre!

Troppe volte le gabbie più pesanti sono nella mente, ed un uomo prigioniero fisicamente può essere molto più libero di un’aquila che svetta a duemila metri!

     La libertà è poter dire, esprimere, fare, scrivere, operare o più semplicemente pensare.

I sogni fanno parte della libertà.

Se siamo liberi di pensare siamo anche liberi di sognare … già, sognare che non vuol dire nutrirsi di utopia, ma guardare la realtà con gli occhi della speranza.

Esprime la coscienza che qualcosa può cambiare, e a noi, nel nostro piccolo, spetta crederci fino in fondo, con l’affascinante obbligo di impegnarci a migliorare questa nostra storia troppo spesso grigia e resa opaca da inutili aspirazioni.



L’amore è nato con l’uomo, la guerra è nata con l’uomo che non riusciva a dialogare, a confrontarsi, a parlare.

L’amore vince sempre, la guerra uccide senza eccezione soprattutto gli inermi e chi non c’entra niente, chi non l’ha voluta e chi la subisce senza colpa, chi la rifiuta e chi la contraddice, chi non la vota e chi chiede la pace.

     Ci tenevo a scrivere queste pagine per spiegare la nobiltà dei mille volti dell’amore: quello fraterno, dell’amicizia, del volontariato, del servizio, del matrimonio, dei consacrati etc.

L’odio ha una sola faccia: non parla, non si presenta, è presuntuoso, crede di essere il più forte … sono queste le sue soddisfazioni!

     Ma la realtà è un’altra: l’amore vince sempre sull’odio, anche se talora  non ce ne accorgiamo perché è silenzioso o si preferisce nasconderlo per non dar fastidio, o peggio ancora per vergogna.



Spero di poter far rivivere un pò delle mie emozioni che scrivendo e rileggendo questo libro ho provato, alternando la rabbia di quelle condizioni  umane,  agli occhi limpidi come  di un bimbo di fronte al cospetto maestoso del mare.

     Mi sono intenerito, talvolta, come di fronte ad una scena indelebile che abita le stanze del mio cuore, quando una donna non vedente, tra mare e natura, viveva i fantastici paesaggi di un’isola croata guidata dalle mani, dagli occhi  e dai racconti di suo figlio.

     Scoprire di essere capaci di emozionarci di fronte alla vita, esprime il saperne cogliere i molteplici aspetti con la sensibilità di un uomo che vuole crescere e migliorare quella parte di mondo con cui si misura, insieme  al coraggio e alla voglia di “sfidare  i suoi giorni”.





A conclusione della mia premessa, il messaggio più concreto che mi preme consegnare, è la lettura del più grande comandamento che  Cristo ci ha donato: Amatevi l’un l’altro come  Io vi ho amati.

Questi fogli sono per me un’autocritica che un giorno, nel percorso della vita, spero di tramutare in insegnamento tramite l’esempio.

 La mia è un’immensa speranza: che l’amore vinca sempre sull’odio.

 
 
L’autore




“L’amore sull’odio”

 Correva l’anno 1919 quando in Italia si evidenziò la crisi del liberalismo, sancendo il successo di socialisti e cattolici.

Tumulti e rivolte da parte dei vari gruppi sociali erano all’ordine del giorno, tuttavia la situazione sembrava ancora stabile in diverse zone della penisola, anche in quel paesino di pianura situato alle pendici del Promontorio del Gargano: Apricena.

     Se volessimo parlare di ricchezza non ci permetteremmo di citare tale piccolo borgo… ma come in tutte le realtà, anche qui erano presenti isole di benessere e oceani di povertà…

     Alcune tra le famiglie nobili del paese erano i Grunspan, di origine ebrea, con un nome e una professione da difendere che oramai vantavano da generazioni… erano dei banchieri.

     Altra casata degna di tutto rispetto erano gli Streicher, di origine tedesca, e il signor Thomas, il capofamiglia, esercitava la professione di avvocato.

     I Grunspan, amati e benvoluti dalla popolazione, godevano di grande successo anche grazie al loro ruolo e alla loro posizione che, oltre a creare numerose possibilità di impiego, aveva valorizzato il nome di Apricena in molte zone del Mezzogiorno.

Non di altrettanta benevolenza potevano fregiarsi invece gli Streicher, famiglia di ferrea educazione, non molto propensa al dialogo e un pò distante proprio per questo, dagli altri nobili del paese, particolarmente dalla famiglia Grunspan in seguito ad un evento di interessi che non favoreggiò in modo alcuno le proprie rendite.

     Alcuni anni dopo lo stabilizzarsi di tale situazione politico sociale, nell’anno 1924, ad Apricena avvenne un incontro involontario tra due ragazzi coetanei, che la storia e un caso fortuito fecero incontrare per caso in Via Roma, arteria principale del paese: Ester Grunspan e Franz Streicher, figli adolescenti delle rispettive famiglie summenzionate…

     Si sente parlare spesso di destino o di ironia della sorte, il cuore di ognuno è libero di interpretare a modo suo… ma intorno all’ora di pranzo, questo impatto fece conoscere a Franz, bel giovane borghese dai capelli scuri, occhi castani e sguardo profondo, la ragazza che sembrò cambiargli improvvisamente la vita!

Si sentì il rumore causato dai libri caduti a terra!

Franz prese subito la parola pronunciando con un tremolante imbarazzo: “Scusa! Non ti ho vista affatto! Spero mi vorrai perdonare…che sbadato che sono! Ho fatto cadere tutti i tuoi libri…posso aiutarti a raccoglierli…

- Grazie! Ma non devi scusarti! - rispose Ester -  Sta tranquillo! Avevo la testa altrove ed… ed ecco il risultato!

     Poi riprese accennando un mezzo sorriso: “Hai ragione! Anche io ero distratto…! Perdonami, non mi sono neppure presentato! Io mi chiamo Franz, e tu?

Io sono Ester! Ma… scusa… devo scappare… E’ tardi, devo studiare… e poi i miei non vogliono che io… insomma… ciao e scusami ancora… - e frettolosamente dopo lo strano giro di parole, si stava avviando verso il centro del paese senza ulteriori commenti.

     Ma Franz con passo sostenuto e seguendo il suo percorso insistette - “Hey hey! Non voglio darti fastidio! Solo scusarmi! Magari potremmo vederci in giro! Sai… domani si terrà un saggio di musica classica presso le sale del palazzo di città… ed io suonerò un pezzo al pianoforte! perché non ci vieni anche tu con le tue amiche?!

Vedendo la determinazione di quel ragazzo finalmente ricambiò il sorriso ribattendo: “Ci penserò!” - e senza altre spiegazioni andò via con i suoi libri mentre Franz, attonito e senza parole, vedeva scappare la fanciulla più carina che avesse mai incontrato!

     In effetti anche Ester rimase un pò attratta da quello strano incontro!

Mai nessuno le aveva parlato in quel modo e con un simile insistente rispetto! Poche battute servirono quasi a farle captare il carattere e l’educazione di quel giovane!

    Il pomeriggio del 9 Aprile 1924, però, mentre Ester tornò ai suoi doveri, per Franz divenne impossibile tenersi tutto dentro.

Decise di lasciare tutto e uscire di casa per chiedere informazioni sulla circostanza che poco prima gli aveva regalato una grande emozione…

     Scese di corsa le scale accennando a suo padre: “Papà esco per fare dei servizi… torno più tardi…”

- Hey Franz! - rispose il signor Thomas - Non ti sembra sia prima il caso di studiare?!

- Si papà certo! Ma… mi manca un libro che ho dato in prestito ad un amico e quindi vado da lui…

- Bhè se è per questo va pure… ma non tornare tardi e ricorda che gli impegni sono impegni… e il tuo dovere ora è quello di studiare…!

- Ok papà! - e scappò via con l’apparente silenzio di chi sa di dire una bella bugia!

Nell’agitazione i suoi capelli ondulati saltellavano più della sua gioiosa anima!

     Nel primo dopoguerra studiare era un privilegio di cui solo pochi godevano e si svolgeva per lo più privatamente, ma in realtà, l’unico impegno che stava a cuore a Franz, aristocratico giovinetto di 16 anni, era andare alla ricerca di Ester… armato di tanta pazienza e voglia di conoscerla.

     L’indirizzo più accreditato a tale scopo era quello del suo migliore amico Matteo, anch’egli di nobile famiglia.

Appena giunto sotto casa bussò ansiosamente al suo portone.

- Buona sera Signora Matilde. Sono Franz. Matteo è in casa?

- Ciao Franz! Matteo è di sopra a studiare. Entra pure. Sai come arrivarci vero?!

- Certo! Mille grazie sig.ra Matilde.

     Salì frettolosamente le scale arrivando in un batter d’occhio alla stanza di Matteo! E con il cuore in gola sussurrò: “Matteo! Ci sei? Si può?!”

- Heylà Franz! Entra pure! A cosa devo questa visita?! Siediti, mi sembri affaticato!

- Non ci crederai Matteo ma oggi mi è capitato un incontro straordinario… ho paura di essermi innamorato! Una ragazza bellissima, ma non so nulla di lei… soltanto il suo nome: Ester…

- Ester?! - prese dicendo Matteo - Bhè non è un nome molto comune qui ad Apricena...

Sai io conosco una ragazza di nome Ester, nostra coetanea, di nobile famiglia… ma non credo sia lei… insomma non credo perché lei esce poco… e solo per studiare!

- Davvero??! - osservò quasi incredulo Franz - Ti prego descrivimela…

- Hey! Quasi non ti riconosco! Potrei anche sbagliarmi!- gli rispose Matteo con apparente risata sfottente! - Comunque è bionda, capelli lunghi, occhi chiari e un viso delicato.

Ci siamo conosciuti ad un saggio di musica classica qualche mesetto fa! Quella volta tu non c’eri perché eri in vacanza con i tuoi! Vedi che significa non starsene mai a casa! Poi però l’avrò rivista al massimo un paio di volte!

Se non ricordo male è figlia del noto banchiere Grunspan, di origine ebrea, che anni addietro trovò fortuna rilevando una banca in paese…

- Sei fantastico Matteo! - urlò Franz nella stanza! - Grazie davvero… deve essere lei! Ma si certo! E’ lei ne sono convinto! Ora scappo altrimenti mio padre è in ansia! Ti saluto… a domani… Grazie ancora!

      - Ok! Ma stà più tranquillo!

     Al termine della chiacchierata Franz era al settimo cielo! Molto probabilmente aveva scoperto chi fosse quella graziosa ragazza che in un attimo sembrò cambiargli la vita.

Appena rientrato a casa quasi non riuscì a trattenere cotanta euforia, purtroppo ben presto resa vana da suo padre…

- Eccomi papà! Sono tornato!

- Mi fa piacere Franz! Ma come mai tutta questa vitalità?!

- Papà ti devo parlare! - gli replicò avvicinandosi velocemente…

- Bhè allora! Dimmi! - disse il sig. Thomas con l’interesse di genitore…

- Sai papà oggi ho scambiato due battute con una ragazza, per caso in Via Roma… ci siamo scontrati e le ho fatto cadere i libri… Aspetta! Aspetta! Non ridere! - interruppe agitando vigorosamente la mano destra - così l’ho guardata negli occhi e mi sono sentito attraversare da una strana sensazione!

Di lei so poco… si chiama Ester ed è figlia di un famoso banchiere di origine ebrea: il Signor Grunspan.

     Franz era ignaro dell’odio che correva tra la sua famiglia e i Grunspan.

Per lui divenne tutto più buio quando suo padre tentò di cancellare i suoi sogni smorzando l’emozione con un tono fermo ed autoritario.

- Franz ma cosa dici? Dimentica quella ragazza.

Un giorno capirai che lo faccio per il tuo bene. E’ gente falsa che non merita attenzione. Non voglio mai più sentirti pronunciare quel nome. Mai più. Ed ora torna a studiare.

   Improvvisamente la stanza divenne oscura.

Le immobili pareti sembravano correre più del vento, i contrastanti sentimenti provocarono lacrime trattenute a stento.

Con pacato silenzio ed ammirevole rispetto, Franz si avviò verso la sua camera con una spossatezza che non lo caratterizzava affatto.

Il peso della rabbia e del dolore divennero troppo forti.

   In quei momenti di tristezza avrebbe voluto fare di tutto, tentare ogni strada, persino scappare di casa, ma presto capì che la vita è una strana realtà che giorno dopo giorno si presenta per metterti alla prova.

Comprese  che non si può fuggire di fronte ad un ostacolo, ma lo si deve affrontare per metter fine a quella corsa disperata che quotidianamente ti gira dentro.

   L’unica vera soluzione era impegnarsi nella lotta contro l’odio che affliggeva le due famiglie per riavere la speranza di incontrare ancora Ester.

Una fiducia che non è utopia ma voglia di donare ancora un senso, ancora la percezione che nel proprio piccolo ognuno può regalare voglia di far bene, in una realtà troppo spesso impregnata di rivalità e prepotenza.

    

Lo svolgersi degli eventi storici intanto avanzava, e la situazione politica italiana dell’epoca mostrava aperte fratture tra le fazioni politiche, tanto da segnare la crisi dello stato liberale a vantaggio del neoformato partito fascista che, anche grazie all’appoggio della vecchia classe dirigente, trovò piuttosto in modo immediato la strada per affermarsi.

Benito Mussolini, a capo del neonato partito, intraprese il 26 Ottobre dell’anno 1922, la marcia su Roma, compiendo un vero e proprio colpo di stato e formando dunque il nuovo governo poi trasformato il 3 Gennaio 1925, in partito di regime.

   Il fascismo assunse i caratteri di un regime forte, accentrato, conservatore e marcatamente favorevole verso la grande borghesia. Risultava evidente che in un siffatto palcoscenico sociale si consegnava ad una gratificata classe nobile, oltretutto, l’appoggio del potere totalitario.

     Negli anni di presidenza Mussolini era solito far visita ai grandi capitalisti indicendo comizi e incontri privati, e i primi periodi furono parecchio intrisi di tali appuntamenti.

Fra i molti convegni che si andavano organizzando,  volle incontrare anche i nobili del Gargano convocandoli in un paese con una certa importanza economica, e l’esito di tale scelta risultò essere proprio Apricena in virtù del suo rilievo estrattivo e della massiccia giacenza di cave di pietra.

Non mancarono gli inviti distribuiti alle diverse famiglie nobili della zona e tutti erano pronti per il grande evento.

Figuravano tra i nominativi, chiaramente, anche la famiglia Streicher e la famiglia Grunspan.

     Passeggiando davanti un’edicola, Franz, quasi completamene ignaro di quel mondo adulto, vide qualche giorno precedente l’importante avvenimento, un nutrito gruppo di persone che dialogava animatamente di qualcosa che subito capì non essere di poco conto.

Si avvicinò cercando di afferrare a cosa si riferissero i loro discorsi con la disinvolta aria di un giovane ragazzo attento all’informazione.

Ma il titolo di un quotidiano carpì immediatamente la sua attenzione: IL DUCE INCONTRA APRICENA.

Quanto le devo? - chiese all’edicolante stringendo già tra le mani una copia del giornale.

Prendilo pure - rispose il signore - lo stiamo distribuendo… - proseguì accennando un sorriso insoddisfatto.

La ringrazio - concluse Franz - andando via curioso di leggere il contenuto di quelle pagine.

Le prime righe recitavano un celebre discorso del duce: “Il Governo si considera come lo stato maggiore della Nazione che si affatica nell’opera civile della pace.

Il Governo è insonne perché non permette che i cittadini siano dei poltroni, il Governo è duro perché considera che nello Stato non abbiano diritto di cittadinanza i nemici dello Stato, il Governo è inflessibile, perché sente che in questi tempi di ferro solo le volontà inflessibili possono marciare…”

Poi un trafiletto incideva la visita del duce in un paesino del Gargano:  Apricena.

     Ecco perché si discuteva così animatamente, pensò Franz.

Poi si mise a riflettere sulla durezza e sulla convinzione di quelle frasi appena lette… e si avviò verso casa.     

     Nel paese iniziò a circolare la voce di tale rilevante incontro e Franz, in cuor suo, nutriva grande apprensione poiché sapeva di poter incontrare di nuovo Ester, che nonostante la distanza creata da alcuni mesi, continuava ad essere nei suoi pensieri.

     Il Duce, appellativo storicamente attribuito a Mussolini, organizzò una grande festa che si tenne in piazza dei Mille, importante ed accogliente spiazzo situato nel centro storico del borgo, il 13 Giugno 1925.

Giunte le 18:00 il sagrato si gremì di gente.

Lo scenario inverosimile, i raggi di sole scolpivano ancora le casupole, il grande palco allestito recava un evidente slogan con l’inciso:

“AUTOSUFFICIENZA, SVILUPPO E RISANAMENTO. INSIEME VINCEREMO”.

     Nei partecipanti regnava la voglia di primeggiare e per gran parte di loro, nobiltà voleva indicare “sottomissione” dei più deboli.

Franz in cuor suo serbava solo un sentimento di pace.

     All’improvviso una voce squillante annunciò l’arrivo del duce su un’auto di lusso di colore nero.

Le mani levate verso di lui, gli applausi le grida:

- Evviva il duce!

Con l’aria altezzosa che lo rendeva unico, scese  e si recò sul palco introducendo il suo discorso tra applausi e ringraziamenti.

Franz, come gli altri intervenuti, ascoltava il discorso.

Tutt’a un tratto però il suo sguardo si fermò fisso immobile.

Aveva riconosciuto Ester.

Bastava attendere il momento propizio per avvicinarsi a lei!

In un istante di particolare fervore della manifestazione, così, si divincolò dall’attenzione di suo padre e prendendo al balzo l’occasione le andò incontro.

Una volta vicino le sussurrò quasi come se non volesse spaventarla: - Ester! Sei tu vero? Ti ricordi di me?!

E lei alquanto sorpresa rispose: Certo che si!

Tu sei Fr… Franz! Ci siamo conosciuti in un modo un pò  anomalo!

Il ricordo lo rese  nostalgico ma gioioso al tempo stesso…

- Già! - riprese -  Sono proprio io! Sai non mi sembravi tu da lontano, così ho pensato di avvicinarmi di più! Poi dopo diversi mesi potevo anche sbagliarmi no?!

… A proposito, io mi sto un pò annoiando qui… ti andrebbe di fare un giro?

- Bhè, in realtà sarebbe meglio evitare… ma non ti nego che anche io mi trovo qui solo perché i miei genitori ci tenevano!

… Ok, ci sto,  ma solo una breve passeggiata… non vorrei che se ne accorgano!    

     Sprezzanti del pericolo che correvano entrambi nel caso fossero stati scoperti, i due si incamminarono verso via Roma, adiacente a piazza dei Mille e luogo del primo incontro.

Fu un’occasione indimenticabile.

Ester sembrò felice di quella strana amicizia nata quasi per caso e di quella passeggiata di soli pochi minuti… Franz non era un ragazzo come tanti altri e, come lei, amava la vita e odiava le stupide rivalità.

In comune avevano molte cose.

    Passeggiando si resero conto che forse era meglio ritornare in piazza ed Ester disse: “Franz, dobbiamo ritornare in piazza. Non rischiamo di farci riprendere…”

- Certo. - rispose un pò rattristato - Ti posso chiedere un’ultima cosa?

- Si! Dimmi!

- Che ne dici se continuiamo a vederci ogni tanto?!  Abbiamo diverse cose in comune, ma se ci rivediamo tra qualche mese magari ti sarai dimenticata di me…! E non dirmi che ci penserai come hai fatto per il saggio di musica classica dove non ti ho vista! - accennò sorridendo indicando con l’indice verso l’alto…

-  Esagerato! Quel giorno sono stata impegnata! - rispose Ester ridendo di gusto - Ma per me va bene!

     Il tempo era scaduto.

Dovevano ritornare alla base per non destare sospetti.

Si salutarono con una stretta di mano e degli sguardi che lasciavano trasparire serenità.

     Franz pregava di essere corrisposto in un amore nei confronti di quella ragazza che dopo quel breve secondo dialogo, era sempre più certo di portarsi dentro.

   Tornati in piazza si rimise nei paraggi dei suoi genitori ed Ester  tornò dalle sue amiche.

Tutto andò per il meglio. Nessuno si accorse di nulla.

     Alle 20:20 circa tutto si concluse.

Il duce abbandonò il palco con occhi di ghiaccio e braccio teso verso l’alto corrisposto dagli applausi apprezzanti della platea.

Si rientrò a casa con le piene convinzioni di chi ti innalza di potere.

I ricchi soddisfatti e i modesti all’obbedienza.

Gli unici a rincasare con il cuore pieno di sentimenti nobili, erano Franz ed Ester.

Niente poteva impedir loro di incontrarsi nuovamente seppur di nascosto.

     Così andò la loro storia. Cominciarono ad incontrarsi dapprima una volta alla settimana, poi due, poi tre volte.

     Mentre i giorni trascorrevano, comprendevano sempre più di esser fatti l’un per l’altra… il tempo, che nella vita è uno dei pochi concetti leali, ed un lusso assai arduo da godere,  trasportava i loro cuori sempre più verso una scelta consapevole.   

  

   Franz ed Ester, entrambi diciassettenni, si innamorarono coscienti delle mille difficoltà che avrebbero potuto incontrare. Ormai anche Ester sapeva dell’odio tra le loro famiglie, ma come Franz non ebbe paura.

     Cosa sono i nostri giorni, se il coraggio di vivere ed amare, non li accompagnano attanagliati alle dure scelte che talora si affrontano? Sono nulla. Anche un cuore giovane può affrontare scelte di ampio spessore.



Era una domenica d’Agosto quando i due si recarono insieme presso il centro del paese con il cuore pieno di gioia forte da sfidare ogni cosa!

     Mentre camminavano tranquillamente, la loro pace fu disturbata dal rumore di un’automobile che all’epoca solo veramente poca gente si poteva permettere, e ad Apricena tra le poche famiglie che godevano di tale lusso c’erano anche i Grunspan e gli Streicher…

     La paura accrebbe con l’avvicinarsi dell’auto, la mano destra di Franz strinse la sinistra di Ester mentre cominciava la corsa verso il primo rifugio che riconobbero nell’angolo di una stradina.

Il fiato smorzato e gli sguardi impauriti speravano in un rapido allontanarsi di quella lussuosa auto guidata da Joseph Grunspan, padre di Ester.

Gli sforzi per sfuggire da un destino apparentemente già segnato sembrarono vani.

Il ricco banchiere notò i due giovani fingendo di non riconoscere sua figlia e con una teatrale calma passò davanti a loro a velocità molto ridotta.

Seguì subito uno scambio di battute tra i due.

Franz sussurrò impaurito: “Non ci ha visti!”

- Speriamo… ribatté speranzosa Ester.

Gli attimi seguenti furono sufficienti al fugace saluto che portò Ester subito a casa dove in realtà, non trovò un clima molto comprensivo…

     La solare domenica di Agosto divenne palcoscenico di una fine inevitabile, quella della verità, con la quale  rivelò con grande coraggio il suo amore per Franz ma che le costò  l’esemplare punizione di restare chiusa in casa finché non  avesse dimenticato quel giovane.

A volte il prezzo della verità è troppo alto, ma il cuore ha bisogno di narrarla quando la voglia di volare controvento grida dentro la  brama di vivere.

Per Ester fu così.

     Non uscì per mesi ricevendo lezioni private finanche in casa, l’unico mezzo per alimentare il suo amore restavano le lettere che le sue amiche, uniche a poterla incontrare, consegnavano in segreto a Franz.

Una del 16 Dicembre 1926 diceva:



Caro Franz,

Sto per impazzire tra queste bianche mura,vorrei tanto abbracciarti e stringerti forte.

Perché portiamo due cognomi così incompatibili tra loro?! Bastava che tu o io ci chiamassimo diversamente ed ora staremmo a rincorrerci ridendo per tutto il paese!

     Sono ormai quattro mesi che non ci vediamo, chissà se sei cambiato, se mi ami ancora come prima o ci hai rinunciato!

I miei genitori non mi parlano più, chiedono solo di te… ma io non ho paura… continuo a rispondere che ti amo e ti amerò per sempre.

Non so fin quando riuscirò ad andare avanti in questa situazione.

La tua ultima lettera la leggo dieci volte al giorno!

E leggendola piango, in silenzio, quando nessuno mi ascolta, interrogandomi sul destino di ogni uomo.

     Quando scrivi che vuoi diventare un grande avvocato per combattere l’ingiustizia e la prepotenza sono fiera di te… il mondo ha bisogno di cuori come il tuo.

Sai anch’io continuo a studiare per quanto ci riesca!

I miei figli, semmai Dio me ne vorrà affidare, la prima parola che vorrei  sussurrassero quando a pochi mesi ti guardano gioiosi di vivere, è Amore!

Non mamma, né papà.. ma Amore.

Con questo pensiero ti lascio con affetto perché tra poco verrà papà ad accertarsi se ho studiato!

Spero di abbracciarti presto,  molto presto.

Ti amo. Tua Ester.



Passavano  intanto i giorni e così il sig. Joseph permise a sua figlia di uscire di casa, ma solo per studiare dalle sue amiche.

Chiaramente la notizia giunse subito a Franz che non esitò a farsi trovare all’angolo di via Barontini, vicino all’abitazione di Sonia, amica intima di Ester dove spesso si soffermavano per lo studio pomeridiano.

Riuscirono a vedersi.

Il primo giorno si espressero solo i loro occhi, le parole strozzate in gola rimasero mute dalla gioia.

     Il loro affetto non si arrese mai e continuò per anni in quel modo, alimentato da pochi incontri che ridonavano gioia e forza per combattere contro quella realtà così ostile presentata alla loro storia.



     Era il 1928 l’anno in cui Franz intraprese i suoi studi da avvocato rendendo fiero suo padre Thomas il quale ammirava oltretutto suo figlio, per la convinzione che quella remota discussione circa Ester Grunspan fosse chiusa con la rassegnazione dei due.

In realtà Franz ebbe grande coraggio e forza d’animo a non rivelare mai la loro storia  che continuava di nascosto, anche se di lì a poco sarebbe emersa la realtà.

     Storicamente, intanto, il 1929 fu l’anno in cui la Germania, colpita da una grande crisi economica, fece rafforzare nelle coscienze il mito del capo carismatico, del razzismo e del militarismo, affermando sempre più prepotentemente il regime autoritario già da anni presente anche in Italia.     

     Questo era il programma dei nazionalsocialisti i quali, nelle elezioni del 1930 ottennero un notevole successo poi culminato nel Gennaio del 1933 quando in Germania Adolf Hitler ottenne il cancellariato, imponendo ufficialmente come partito unico quello nazista.

     Anche nella penisola iniziò a parlarsi della cosiddetta “politica del terrore”, e pur se la situazione sembrava essere ancora tranquilla, si cominciò a guardare con diffidenza tale regime totalitario.

     Nel contesto politico europeo, invero, la dittatura Hitleriana non apparve come un accadimento sconvolgente in primo luogo perché il Furher (condottiero), come si fece appellare Adolf Hitler, realizzò il proprio programma con meditata lentezza ma irresistibile progressione; in più l’avvento della dittatura non costituiva per l’Europa una novità, in considerazione del fatto che analoghi movimenti politici si erano insediati e consolidati anche in altri paesi: in Italia con Mussolini, in Spagna con Primo De Rivera, in Portogallo con Antonio Salazas, in Grecia con Metaxas, in Austria con Dollfuss, in Romania con Antonescu e in Turchia con Ataturk.

     Mentre, però, nella compagine internazionale si muoveva qualcosa iniziando a sporcare le pagine di storia, nell’apparente pace di Apricena, Franz concluse nel 1933 i suoi studi in legge e divenne avvocato coronando il suo sogno.

Ester divenne una brava maestra di Storia e Letteratura ed insegnava presso la scuola elementare “Luigi Torelli”.

     Ormai erano adulti e non potevano più nascondere quanto provavano l’un per l’altro.

Gli anni, che lenti trascinarono via un mucchio di ricordi, attimi e minuti vissuti in penombra, lasciarono intatti i loro cuori, la loro mente, le loro gioiose anime.  

     La paura del giudizio paterno fu per entrambi cancellata abbattendo il recinto che per anni aveva accompagnato la loro esistenza.

L’amore ottenne la sua prima grande vittoria.

     Nonostante la consapevolezza che avvolgeva le due famiglie, I Grunspan e gli Streicher non riuscirono mai a volersi bene, quell’innato odio continuava a serpeggiare nelle loro coscienze non facendo mai accettare il nobile sentimento che accomunava i propri figli, autentici guerrieri credenti nella pace e nella speranza che un giorno, forse, avrebbe unito anche i loro genitori.

     Il loro sogno fu coronato col matrimonio nel 1934 nella Chiesa dei Santi Martino e Lucia, ed al banchetto nuziale parteciparono anche i rispettivi nuclei familiari per custodire quell’onore che tanto era costato loro accaparrarsi.

Accanto agli sposi le sedie vuote, i Grunspan e gli Streicher sedevano ai lati opposta della sala.

     Per gli sposi, comunque festosi nel loro giorno più bello, la cerimonia continuò fino a tarda sera e il canto degli usignoli in quel dì del 19 Marzo 1934 sembravano annunciare la vittoria di una battaglia, in una coreografia di verdi prati e roseti in fiore, balli, danze, musiche e sorrisi  che coloravano il volto dei partecipanti.

Alla fine della festa Franz ed Ester potevano rientrare a casa insieme!

I loro “sacrifici” furono ricambiati da un’immensa felicità.

     Il periodo più bello della loro vita nasceva tuttavia in un contesto storico molto particolare.

Il 1935, quasi un anno dopo il matrimonio, ospitò uno dei più devastanti avvenimenti,  che segnò purtroppo solo l’inizio di una grave sciagura poi culminata negli anni a seguire.

     Il Nazismo sosteneva la teoria della superiorità assoluta ed indiscutibile della razza ariana, alla quale si doveva attribuire il merito esclusivo del progresso dell’umanità, e la cui purezza andava difesa contro ogni pericolo di “inquinamento”.

Il razzismo hitleriano individuò più in particolare, oltre una moltitudine di “categorie”, il principale nemico nel popolo ebraico, considerato come la vera e propria origine di tutti i mali del mondo, compresi quelli della Germania.

     Conseguenza di tale follia furono le spietate persecuzioni contro gli ebrei ai quali, in un primo momento fu impedito l’esercizio di libere professioni, la frequenza scolastica ed altre particolari attività, successivamente sfociate nella promulgazione delle “leggi razziali di Norimberga” il 15 Settembre 1935.

In base a tali normative gli ebrei furono privati della cittadinanza tedesca e della possibilità di contrarre matrimonio con altri cittadini tedeschi.

     Marcia irrefrenabile della pazzia fu inoltre l’obbligo di esibire sugli abiti la stella gialla di David, in modo da essere ben riconoscibili in pubblico.

Tali leggi cominciarono a suscitare tumulti anche in Italia.

Ad Apricena gli unici ebrei erano i Grunspan.

     Ester, Franz e Joseph Grunspan mostrarono una evidente preoccupazione per la compagine storica che stava verificandosi nella vicina Germania, anche perché il fascismo italiano, che in principio fu accolto con benvolere ed entusiasmo, cominciò a divenire fonte di paura a causa della condivisione ideale totalitaria di Benito Mussolini.

Ciononostante gli ebrei presenti nella penisola potevano ancora restare relativamente sereni in quanto l’ondata antiebrea non ancora interessava le aspirazioni del duce.



Ester e Franz continuavano la loro vita tra lavoro e famiglia, serbando però in cuor loro la perplessità del pericolo storico che stavano attraversando.

Era l’anno 1938 quando, infatti, si iniziò a scrivere una delle pagine più cupe del libri di storia anche in Italia; era l’anno in cui Adolf Hitler arrivò in visita a Roma accompagnato da Benito Mussolini.

     Nel cuore di Franz l’agitazione aumentava.

In quegli anni era riuscito a raggiungere una posizione di rilievo grazie alla sua professione, conoscendo peraltro molta gente importante e conquistando amicizie influenti, che lo spinsero ad informarsi sulla situazione politica italiana da un suo grande amico associato al fascismo residente a San Severo, paese distante pochi chilometri da Apricena.

Le notizie non furono rassicuranti.

La situazione stava degenerando anche nella penisola e di li a poco il Fhurer avrebbe esteso i suoi progetti anche grazie all’appoggio del Duce.

     Dopo l’asse Roma - Berlino, infatti, anche l’Italia dovette dar prova di forza il 7 Aprile 1939 con due eventi: l’attacco all’Albania e la stipulazione del “Patto d’acciaio”, un trattato di alleanza militare che impegnava le due potenze a prestarsi reciproco aiuto in caso di guerra.

Il Settembre 1939 dava ufficialmente inizio al secondo conflitto mondiale.

Da allora anche nella penisola cominciarono le persecuzioni contro gli ebrei.

Furono totalmente cancellati gli ideali di democrazia e il concetto dei “diritti” che nessuno più poteva vantare.

Fu la guerra.

L’unico colore col potere di sfilare era il nero delle casacche fasciste alle quali non si poteva obiettare.

Solo obbedire.

     Tra queste righe tristi del XX secolo il cattivo sapore del fondo lo toccò in maggior parte un popolo che, senza scegliere la propria condizione, portava un’etichetta: ebreo.

Franz, dal canto suo, nella incalzante desolazione si occupò solo della difesa di questa stirpe in qualità di avvocato e marito di Ester, anch’essa ebrea.

La parola “giustizia” risonante prepotentemente nel suo cuore non poté però impedire di sfuggire a quell’orrendo stato di cose.

     Il 9 aprile 1940 la Germania invase e annientò in breve la resistenza di Norvegia e Danimarca.

Fu poi la volta della Francia con la tattica della Blitzkrieg (guerra lampo), che riuscì a sconfiggere i francesi e le armate britanniche.

Ma la situazione degenerò quando Mussolini, dopo l’iniziale posizione di non belligeranza, decise l’ingresso nel conflitto attaccando la Francia ed includendo nelle ostilità mondiali anche l’Italia.

Il 18 giugno, giorno dell'attacco italiano, ebbe luogo tra le disapprovazioni di Badoglio che chiarì a Mussolini che "l'esercito italiano non ha neppure le camicie"… ricevendo l’altezzosa risposta del duce: "Voi non capite, io ho bisogno di qualche migliaio di morti per sedermi al tavolo di pace".

Nonostante la rotta generale dell'esercito francese, le truppe italiane, male armate e peggio comandate, segnarono il passo.

Il 28 ottobre 1940 su personale iniziativa di Benito Mussolini l'Italia invase la Grecia partendo dalle basi in Albania, e sebbene in inferiorità numerica, le forze greche respinsero gli invasori dando agli alleati la loro prima vittoria e costringendo Mussolini a chiedere aiuto ai tedeschi.

I caduti italiani nel dissennato attacco alla Grecia furono più di tredicimila.

     Il 22 giugno 1941, un anno dopo tali eventi, la Germania attaccò l'Unione Sovietica con l'Operazione Barbarossa,  pur avendo un patto di non aggressione, ma i russi riuscirono a resistere prima dell'arrivo dell'inverno; e questo fu strategico dato che le armate tedesche non erano equipaggiate per il combattimento nel rigido freddo russo.

    

Sull’altro fronte, poche settimane più tardi, le milizie capeggiate dal generale Frank Holzel irruppero ad Apricena, forse l’ultimo paese interessato dalle persecuzioni, entrando trionfanti nella sede del partito fascista ed accolto da una folta schiera dirigenziale che lo salutò con grande entusiasmo.

     La voce del generale pronunciò decisa: “Heil!”

Il suo braccio destro alzato con forza ed il rumore dei tacchi dei suoi stivali, risuonarono audaci nella stradina che ospitava il partito fascista.

Al suo saluto la risposta fu altrettanto orgogliosa: “Heil!”

    Il compito del generale Holzel era quello di emettere un ultimatum alle famiglie ebree.

Dopo i saluti di rito prese la parola pronunciando un italiano poco preciso ma ben annunciato.

Audaci sostenitori delle forze superiori, sono qui dopo aver visitato Benito Mussolini la scorsa settimana.

La mia funzione nella Capitanata è dare notizia alle famiglie ebree qui presenti, che per loro sarà sospesa ogni forma di professione e sarà obbligatorio il loro censimento presso le liste civiche comunali”.    

     All’improvviso le coscienze ammutolite dall’ardore del mal pronunciato pensiero nazista, sembrarono bloccarsi nella stanza.

L’unica famiglia ebrea ad Apricena erano i Grunspan.

     Dopo una serie di indagini ed accertamenti sulle liste civiche, i militari fecero visita a tutti i parenti, seppur remoti, degli aventi cittadinanza ebrea, pur non essendo presenti ad Apricena, con il solo scopo intimidatorio di rendere nota la loro posizione.

Qualche giorno più in là fecero visita anche alla famiglia Grunspan.

A bussare con decisione fu il generale Holzel.

- Sig. Grunspan?!

- Cosa desidera? - rispose il sig. Joseph con più pacatezza.

- Apra! Sono il generale Frank Holzel. Devo lasciare comunicazioni importanti.

     Il portone della bella e nobile dimora Grunspan si aprì lentamente.

Poi il generale riprese:  “Le devo consegnare un mandato controfirmato direttamente da Mussolini in cui si impone di sospendere lo svolgimento della professione a tutti gli ebrei.

Il sig. Joseph all’udire quelle parole ebbe una reazione non molto felice considerando le circostanze…

- Ma come…- disse - non capisco... Non potete...

E si scagliò contro, urlando disperatamente tutta la sua rabbia…

Questo atteggiamento gli costò  molto caro.

Le truppe naziste lo picchiarono lasciandolo a terra.

- Le consiglio di non opporsi. Ora decretiamo noi le decisioni. Qualsiasi disobbedienza verrà punita violentemente. - furono le poche chiare parole pronunciate.

Detto questo lasciò anche il mandato per sua figlia Ester.

La sig.ra Grunspan soccorse subito suo marito e pregò gli spauriti passanti di avvertire sua figlia, se qualcuno la conosceva.

Il primo a prestare aiuto fu “mbà Mattiucc” che non perse un attimo indirizzandosi immediatamente a casa di Franz.

- Franz! Fuj fuj... va ccada soc’t ca jè ssuccés nu wèj.

Li tedesc l’anna m’nèt...

La paura di qualcosa di molto grave pervase il cuore di Franz  che superficialmente rispose - Grazj Mbà Mattiù! - poi continuò - Ma sta bon soc’m...? - con la domanda smorzata da una corsa improvvisa.

Si precipitarono nella casa paterna, accolti dall’opaco scenario che sembrava gettare lacrime insieme al volto di Ester.

Tutti furono colpiti da grande paura.

I primi momenti carichi di nervosismo e un’assordante silenzio, aprirono la strada a quello che sarebbe stata la tragica origine della triste storia dei Grunspan.

Poi, Ester prese la parola.

Era agitata.

- Franz, dobbiamo fare qualcosa... dobbiamo scappare... o rifugiarci… ormai non c’è più nulla da fare...

- Sta calma amore. Andrà tutto bene vedrai. Farò appello ad un caro amico nel Molise, se vorrà aiutarci, in settimana ci trasferiamo ad Isernia. Li staremo meglio e non appena tutto sarà finito torneremo alla nostra vita.

     Franz faceva riferimento ad un suo amico avvocato di Isernia, Giorgio Antara, insospettabile e coraggioso penalista, che avrebbe potuto ospitarli clandestinamente, dato che era a quel punto vietato collaborare in qualsiasi modo con gli ebrei fuggiaschi.

Giorgio fu estremamente compiaciuto di sentire sue notizie, almeno fino al momento in cui capì la situazione venutasi a creare.

Dopo un primo momento di esitazione a causa della pericolosità che l’azione comportava, accettò questa sfida per amor del suo amico.

Qualche giorno più tardi tutta la famiglia poté trasferirsi.

     Durante i preparativi per il forzato soggiorno nel vicino Molise, Franz andò a casa dei suoi genitori per informare loro della scelta fatta a causa della ancora pacata, ma molto ben riconoscibile dura realtà che stava per invadere l’intera nazione.

Sopraggiunto alla casa paterna ci fu Thomas Streicher ad aprire.

- Papà! - esclamò provato Franz.

- Ciao Franz. - rispose meravigliato della visita il sig. Thomas -  A cosa devo questo tuo salto da noi?!

- Papà... devo stare fuori Apricena per un pò di tempo...

- Per lavoro?!

- No purtroppo. - riprese con gli occhi lucidi Franz - Sappiamo tutti di fronte a cosa siamo giunti...

- Ma Franz...- riprese suo padre attonito - che vuoi dire?

Il clima divenne più serio.

- Le truppe tedesche hanno malmenato  e minacciato mio suocero… gli ebrei non possono più esercitare professioni, e alleati fascisti mi hanno consigliato di rifugiarci in un posto tranquillo.

Tra non molto le persecuzioni saranno massicce.

- Ma Franz... Non capisco... Potrei parlare con qualche amico influente ed evitare che accada ancora… Ti prego sii lucido. E poi noi non siamo ebrei...

     Questa osservazione piegò il cuore di Franz, troppo presto illusosi che tra le due famiglie potesse esser nata una tregua.

- Ma come?! - osservò profondamente rattristato - La mia vita è con Ester... come puoi non comprendere questa mia scelta?! Mi dispiace... andrò via… spero di rivedervi...

- Aspetta Franz...

E prese a correre per afferrarlo dal braccio e stringerlo forte al petto.

Poi riprese - Abbi cura di te…

Voltate le spalle fu il rumore della porta a dare risposta.

     Restava da affrontare un duro viaggio, più di ogni altra cosa dentro di loro.

Niente era sicuro, ma la speranza di continuare a vivere colorando i propri sogni di giustizia e lealtà, alimentava i loro giorni.

     La compagine storica cominciò intanto a mostrare le prime dure persecuzioni.

Le deportazioni e le piaghe di questo popolo diedero lavoro ai cosiddetti “campi di concentramento”, località di accoglienza per una morte lenta e dolorosa che contrassegnò la follia hitleriana di ripulire il mondo.

     Dal 1941 in poi furono emesse sempre nuove ordinanze dal vertice, imponendo la cattura degli ebrei che in pochi mesi, da Marzo a Novembre, furono imbarcati sulle “carovane della morte” con uguali e diversi capolinea: Auschwitz, Buchenwald, Dachau, Mauthausen, Ravensbruck.

     I Grunspan ad Isernia poterono vivere relativamente distesi fino al Gennaio 1942, periodo in cui la lista ebrea in possesso nazista scorse anche il loro nome.

Apricena fu invasa dalle truppe nere che misero a soqquadro le abitazioni di Franz e Joseph.

Trovando solo le candide mura ad accogliere la loro prepotenza, incendiarono quanto di più caro trovarono, compresa l’istituto bancario che con tanto sacrificio Joseph Grunspan aveva innalzato.

La notizia giunse subito ad Isernia dove la paura aumentava col passare delle ore.

Furono giorni difficili.

Solo la vicinanza e la voglia di farcela permetteva loro ancora di aver fiducia.

     Era il 19 Gennaio 1942 tuttavia, allorquando i nazisti entrarono ad Isernia facendo irruzione nello scantinato di Giorgio Antara, informati da qualche infame cittadino contraccambiato da poche lire qual ricompensa.

Le parole gridate nonostante la vicinanza, lasciavano trasparire attimi sventurati.

Le percosse erano le stesse per tutti, uomini o donne, anziani e non.

Ad attenderli la Jeep dell’esercito che li avrebbe portati in stazione le cui linee erano interamente controllate dal potere dell’alleanza.

L’intera struttura era occupata da tutti gli uomini marchiati dalla stella di Davide, in condizioni disumane, ammassati, con due pasti al giorno, per modo di dire.

Lì ognuno avrebbe atteso almeno una settimana prima che il convoglio di appartenenza fosse partito per la destinazione decisa.

Così fu anche per i Grunspan e Franz.

Dopo aver trascorso sei orribili giorni nella sala d’attesa, presagio di sventure ben più gravi, il 25 Gennaio 1942 un generale tedesco annunciò il nome della famiglia Grunspan.

Era giunto il loro turno.

Il nome di Franz, però, chiaramente non compariva nella lista nera.

L’immediata reazione fu correre verso il generale con dignitoso rispetto per quella divisa e quel grado, ma l’adrenalina gli scoppiava nelle vene.

- Scusate! Scusate! Io non sono stato chiamato... - fece notare con aria resa affannosa dalla tensione.

- Chi sei? - rispose freddo il generale.

- Mi chiamo Franz Streicher.

- Streicher?! - si mise a scorrere i nomi in ordine alfabetico - Sei fortunato! Il tuo nome non c’è! Vattene.

- No! No! C’è un errore… guardi bene per favore.. io devo salire su quel treno... cominciò a gridare Franz.

- Ti ho detto di andartene. Non ho tempo da perdere con un folle come te...

- Nooo! La prego... Devo salire… un uomo in più vuol dire aiuto no?! Mi faccia andare su… la prego…

Gli occhi e l’affanno di Franz dicevano tutta la rabbia e l’amore in una guerra emotiva contrastante in lui.

Non avrebbe mai permesso che sua moglie da sola andasse via in quei vagoni di ferro, freddi, bui.

Ester da lontano gli gridava di spostarsi.

- Và via Franz. Vattene. Ci rivedremo...

- Nooo... - continuò urlando - devo salire…  Amore devo venire anche io...

     Il generale infastidito dalla scena interruppe i due dicendo: “Sali”.

Franz corse ad abbracciare Ester e i suoi suoceri che si stavano già incamminando sul convoglio.

Il viaggiò ebbe inizio.

     Le continue fermate accrescevano la pressa umana all’interno dei vagoni merce mentre gli ebrei continuavano a salire nella ferraglia in un gelido inverno.

Si dormiva in spazi estremamente ristretti, i bisogni fisiologici erano obbligati a farli nelle campagne circostanti approfittando delle fermate una o due volte ai giorno.

Si mangiava a seconda della bontà dei capi con cibo spesso d’avanzo.

Trattamento da animali.

Quella gente fu privata della libertà e soprattutto della dignità.

     Si può essere prigionieri ma degni di essere uomini, cancellare la dignità vuol dire distruggere una vita dentro molto peggio di quella che sarebbe una morte fisica.

Ma era solo l’inizio di una lunghissima orrenda esperienza che avrebbe segnato per sempre il loro essere.

     Franz stringeva sempre forte la mano di sua moglie Ester e non mancava mai di conforto verso i suoi suoceri, nonostante le condizioni in cui versavano, la speranza che tutto sarebbe stato solo un ricordo era sempre viva in cuor loro.

In realtà tutto sembrò presto vano.

Trascorsi oramai venti giorni dall’inizio del viaggio, qualche passeggero scorse in lontananza un’insegna: Auschwitz.

- Forse siamo arrivati! E’ finita... - si sentì qualche voce affermare speranzosa…

Quest’urlo di gioia o di apparente liberazione trascinò con sé altri mille appartenenti a uomini esterrefatti, ma purtroppo, presto, un altro grido avrebbe caratterizzato le loro esistenze.

     Auschwitz si presentava come una grande officina.

Si notavano grandi camini e un’immensa struttura che subito fece pensare a lavori forzati.

Pian piano il convoglio entrò in quel grande cortile rallentando sempre più fino a sbattere contro un muro di ferro appositamente costruito per fermargli la corsa.

Era il 5 Marzo 1942.

     Appena giunti a destinazione i treni venivano rapidamente scaricati dal loro triste carico umano ed avveniva   la  selezione, tra gli «abili al lavoro» e     coloro da inviare “dritti alla morte”.
     L'area veniva circondata da uomini delle SS armati e da altri internati che provvedevano ad accostare rampe in legno alle porte dei vagoni per semplificare e velocizzare la discesa dei nuovi arrivati.

     Gli stessi internati - che avevano l'assoluto divieto, pena la morte, di parlare con i nuovi arrivati per evitare il panico negli stessi - provvedevano a scaricare i treni in arrivo dei bagagli che successivamente venivano portati presso il settore Kanada di Birkenau dove si effettuava la cernita e l'imballaggio dei beni per il successivo invio in Germania.



Gli uomini venivano separati dalle donne e dai bambini formando due distinte file. A questo punto il personale medico delle SS decideva chi era «abile al lavoro».

Mediamente solo il 25% dei deportati aveva possibilità di sopravvivere.

Il restante 75% (donne, bambini, anziani, madri con figli) era inviato direttamente alle camere a gas dove, in gruppi, i prigionieri venivano uccisi con gas letali (di solito Zyclon B).

     Le percentuali abili/gassati fluttuarono per tutto il corso del conflitto, in base alle esigenze dell'industria bellica tedesca diretta da Albert Speer.

    Vi furono casi di interi treni di deportati inviati direttamente alle camere a gas senza nessuna selezione a causa del sovraffollamento del campo e del preventivato rapido arrivo di nuovi convogli.

La selezione era operata esclusivamente da personale medico delle SS dove uno o più dottori a turno si occupavano del  «servizio alla rampa».

In questa fase le SS mantenevano un comportamento gentile ed accondiscendente al fine di mascherare le loro intenzioni e velocizzare le operazioni di scarico e selezione, infondendo falsa fiducia nei prigionieri appena arrivati, normalmente stanchi e confusi dal lungo viaggio.

     I detenuti dichiarati abili al lavoro venivano condotti negli edifici dei bagni, dove dovevano anzitutto consegnare biancheria ed abiti civili, nonché tutti i monili di cui erano in proprietà; venivano privati, inoltre, dei documenti d'identità nel caso li possedessero.

     Uomini e donne potevano conservare solo un fazzoletto di stoffa; agli uomini era concesso serbare la sola cintura dei pantaloni eventualmente posseduta.
     Successivamente, i prigionieri venivano spinti nel locale in cui erano consegnati ai barbieri, che li radevano su tutto il corpo.

L'operazione era condotta in maniera sbrigativa, dopo aver inumidito le zone sottoposte a rasatura con uno straccio intriso di liquido disinfettante.
     Passaggio successivo era la doccia, cui seguiva la distribuzione del vestiario da campo: una casacca, un paio di pantaloni ed un paio di zoccoli.

Rivestiti dell'abbigliamento da campo, i prigionieri venivano poi registrati compilando un modulo con i dati personali (Häftlings-Personalbogen) e con l'indirizzo dei familiari più prossimi.

     I detenuti ricevevano, poi, un numero progressivo che, per tutta la durata del soggiorno all'interno del campo di concentramento, ne avrebbe sostituito il nome; tale numero era tatuato sul braccio sinistro del prigioniero attraverso uno speciale timbro di metallo, sul quale venivano fissate cifre interscambiabili, fatte di aghi della lunghezza di circa un centimetro.
     Dalla pratica del tatuaggio erano esentati i cittadini tedeschi ed i prigionieri "da educare".
     Il numero di matricola, impresso su un pezzo di tela, era anche cucito sul lato sinistro della casacca, all'altezza del torace, e sulla cucitura esterna della gamba destra dei pantaloni.

Al numero era associato un contrassegno colorato, che identificava le diverse categorie di detenuto:

  • un triangolo di colore rosso identificava i prigionieri politici, nei cui confronti era stato spiccato un mandato di arresto per ragioni di pubblica sicurezza;
  • una stella a sei punte di colore giallo identificava i prigionieri ebrei;
  • un triangolo verde identificava i prigionieri criminali comuni ;
  • un triangolo di colore nero identificava gli "asociali";
  • un triangolo di colore viola identificava i Testimoni di Geova;
  • i religiosi cattolici ricevevano un triangolo di colore rosso, perché generalmente internati in seguito ad azioni repressive naziste rivolte contro l'autorità;

  • un triangolo di colore rosa identificava i prigionieri omosessuali;
  • un triangolo di colore marrone identificava i prigionieri "zingari"
  • un triangolo di colore verde appoggiato sulla base identificava i prigionieri assoggettati a misure di sicurezza, dopo che avevano scontato la pena loro inflitta;
  • una lettera "E" prima del numero di matricola, identificava i detenuti "da educare" (Erziehungshäftling);
  • un cerchietto di colore rosso recante la sigla "IL" (Im Lager, nel campo) identificava i prigionieri ritenuti pericolosi o sospetti di tentare la fuga;
  • un cerchietto di colore nero identificava i prigionieri della "compagnia penale".



Sul triangolo che identificava la categoria, era anche dipinto o impresso con inchiostro l'iniziale tedesca della nazionalità del detenuto, a meno che questi non fosse cittadino tedesco o apolide.

La registrazione proseguiva poi con tre foto, che ritraevano il detenuto di fronte, di profilo destro e di profilo sinistro.

     I detenuti ritenuti "abili al lavoro" dovevano lavorare fino allo stremo per numerose ditte tedesche, tra cui la I.G. Farben, produttrice del gas che serviva a sterminarli, la Metal Union e la Siemens.

     Nel campo non c'erano servizi igienici, nessuna assistenza medica, fame ed epidemie erano all'ordine del giorno.



All’arrivo del convoglio che trasportava Franz e i suoi familiari, i militari tedeschi cominciarono a dare le regole, ma quasi nessuno riusciva a comprendere la loro lingua.

Tra i pochi che conoscevano il tedesco c’era Franz che non appena sentì quelle urla abbracciò Ester e i suoi suoceri.

- Amore andate dietro le altre donne. Non vi opponete mai. Ci vedremo presto. A papà penso io.

     Il tempo di una lacrima discendere sul volto di Ester separò i due con uno scossone di un soldato armato.

Dopo aver diviso tutti gli uomini e le donne, li sistemarono rispettivamente in due grandi stanzoni.

     Circa trecento donne furono subito portate nelle camere a gas con la promessa di una doccia ristoratrice dopo il lungo viaggio.

Furono fatte spogliare e fu loro detto di appendere i vestiti agli appendiabiti per poi reindossarli dopo la doccia.

Serviva solo ad evitare tumulti.

In pochi minuti dalla fuoruscita di acqua e gas quella stanza contò trecento vittime innocenti tra grida, dolore e silenzio.

Le restanti donne, tra cui Ester e sua madre,  seguirono la “normale” procedura, e subito dopo furono accompagnate in una camerata di circa cinquanta metri quadrati, per circa cento posti letto sistemati su più piani.

Unico avviso fu quello di riposare.

La prassi seguì fedelmente le istruzioni impartite.

Ogni volta che in un convoglio arrivavano uomini più del dovuto, molti di loro dovevano essere soppressi per non creare sovraffollamento.

In genere questa gente era visibilmente la più debole.

     Dopo la “sistemazione” del primo giorno il resto era lavoro alternato a poche ore di riposo e scarsa alimentazione per le fatiche sostenute.

Una lotta alla sopravvivenza atta a premiare il fisico più forte, come se una vita può dipendere da questo.

     Nel reparto maschile, tra  gli abili al lavoro che attendevano istruzioni, dopo qualche minuto di attesa nello stanzone ospitante, sopraggiunse un ufficiale con stivali lucidissimi e al suo fianco due soldati.

Dissero in tedesco: “Chi conosce la nostra lingua?!” 

Alla domanda seguì un cupo silenzio.

Franz non era l’unico a destreggiarsi con la lingua tedesca, ma come lui, nessuno rispondeva per timore di ricevere incarichi “pericolosi”.

Allora l’ufficiale riprese: “Mi serve uno che traduca! Se qualcuno mi capisce venga avanti.

A questo punto Franz si diede coraggio e rispose: “Io! Io vi capisco!”

- Bene. Finalmente uno…- replicò l’ufficiale - comunica loro che qui esistono delle regole da osservare attentamente. Nessuno deve mai prendere iniziativa e non vi succederà niente. Dovete solo obbedire.

     Franz iniziò il suo ruolo di traduttore con mirabile obbedienza: “L’ufficiale sta dicendo che nessuno deve permettersi di contestare le regole e che nessuno deve prendere iniziative proprie. Facciamo come ci dicono.

Poi riprese a dire l’ufficiale: “Ora andremo nella camera per il taglio dei capelli e per darvi le divise. Dopo riposo e silenzio. Domani sveglia all’alba.”

Seguiva la traduzione: “Ora ci taglieranno i capelli e ci daranno una divisa. Poi andremo a letto. Domani ci sveglieranno all’alba... Buona fortuna amici...”

Aggiungeva sempre qualcosa nella sua versione, mosso da gran dispiacere per gli occhi di quegli uomini che, come lui, pagavano un ignobile conto senza colpa alcuna.

     Poi, mentre furono incolonnati per l’“accoglienza”, Franz fu chiamato in disparte dall’Ufficiale:

“Hey! Tu. Vieni qui. Mi servi. Tu non andrai con loro. Avrai un altro compito.

- Agli ordini. - rispose Franz.

- Hai capito come funziona... - riprese l’ufficiale - devi essere sveglio ragazzo! Come mai un nostro ospite parla così bene una lingua di un popolo superiore?!

- Bhè in realtà… io provengo da una famiglia tedesca signore... ma mia moglie è ebrea...

     Il dialogo divenne quasi immediatamente confidenziale e l’ufficiale capì subito chi aveva di fronte.

- Sei figlio di tedeschi? - gli disse stupefatto - Ma come cazzo ti hanno spedito in questo posto?! Vieni, devi andar via di qui.

- No...! - controbatté convinto Franz - No la prego. Andrò via solo con mia moglie e i miei suoceri...

L’ufficiale provò pietà.

- Allora dovrò trattarti come gli altri... chi ti appartiene...? - chiese,

- Ester Grunspan, Joseph Grunspan, Elisabette De Gan. Signore.

- Vedrò... Ora ti mostro il tuo compito. Tu sei un Prominent, cioè sei un prigioniero privilegiato!

- Agli ordini Signore.

     Si incamminarono così verso il convoglio parcheggiato al centro dell’immenso cortile.

Ad un tratto l’ufficiale pronunciò quasi disgustato: “Tu dovrai pulire tutte le schifezze di questi animali - riferendosi agli ebrei che arrivavano quasi con cadenza diurna ad Auschwitz - poi li indirizzerai verso le stanze come è stato fatto per voi. Ora và.

     Con questa dura espressione si congedarono.

Franz provò un doppio sentimento: rabbia per una storia così illogica e insensata, speranza verso quella strana “considerazione” nata  per caso da parte di un ufficiale SS nei suoi confronti.

Il tempo e i suoi dolori portavano intanto con loro gli interminabili periodi all’interno del campo.

Erano trascorsi già sedici di giorni, molti più di quelli necessari a capire l’orrore di quel posto.

Agli uomini e alle donne fu proibito incontrarsi.

     Il taglio dei capelli e i pasti per sussistenza rendevano gli ospiti di Auschwitz tutti uguali, addirittura difficili da riconoscere.

Le donne e i bambini svolgevano lavori meno pesanti, come costruzione di attrezzi da lavoro e lavorazione del ferro; gli uomini erano costretti a lavorare almeno quattordici ore al giorno ai mestieri di forza.

     Franz era uno dei pochissimi fortunati a maggior ragione dopo che i capi, avendo saputo che era un avvocato, preferirono sfruttare la sua posizione come furiere.

In quella posizione venne particolarmente privilegiato perché aveva continui contatti con i comandanti del campo e poteva dunque godere delle loro “nobili abitudini” che di tanto in tanto  gli capitava di condividere.

     Molte famiglie degli ufficiali vivevano in villette appartate all’interno del campo di sterminio, lontano da quegli odori di sofferenza che poco più in là si ostentavano.

Non di rado organizzavano gala e feste  per “trascorrere serate diverse” tra ipocrisia, lusso e “falso rispetto”  tra i vari dirigenti.

Una serata in particolare, proprio mentre si stava tenendo una grande cerimonia in occasione del compleanno di un comandante, Franz aveva bisogno di alcune urgenti approvazioni da parte dell’ufficiale che in realtà si trovava all’interno della quinta villetta a schiera ad est del campo, per festeggiare il suo collega.

     Il problema imminente lo portò a dover “disturbare” in quella poco propizia occasione,  il suo diretto capo!

Armato di tanta buona volontà si indirizzò dunque verso la casa e all’uscio bussò al portone dove aprì un internato come lui reso portinaio per l’occasione.

Bona sera - disse Franz - avrei bisogno di parlare con l’ufficiale… so che non è  l’ora né il momento adatto ma ho una certa urgenza…

Attendi - rispose il giovane - entra pure. Provo.

E svelto, tra la folla che si intuiva dall’altra stanza, andò a ricercarlo.

Franz nell’attesa fermò lo sguardo sulle tante medaglie e attestazioni di merito militare che quelle pareti fregiavano al muro… come se un uomo  ricevesse valore in base alle proprie malefatte, pensò tra se.

Ma ecco arrivare da lontano il suo “amico ufficiale”.

     Bhè?? Come mai questa sorpresa?! - esordì con tono  stranamente sincero celato dietro un calice di buon vino.

Signore sono qui per riguardo a delle autorizzazione imminenti che solo lei può amministrare. Rispose Franz.

- Dà qui. - Riprese con volto stralunato probabilmente dall’euforia dell’alcool!

E senza dar troppa importanza siglò i documenti che aveva in mano Franz.

Soggiunse: Ora entra a far festa con noi! Per me è un onore avere un mio “conterraneo” tra la “nostra famiglia”…vieni pure, disse appoggiando la sua mano destra sulla spalla destra di Franz. Colgo l’occasione per presentarti anche mia moglie e mia figlia! Sai siete più o meno coetanei!

- Ma no Signore… avrei da concludere alcuni incarichi - disse Franz cercando di divincolarsi - e poi non mi sento a mio agio…

Seguì un banale rassicurante sorriso. - Non dire sciocchezze! - e presolo sotto braccio lo condusse all’interno della stanza ospitane i festeggiamenti.

Si avvicinò a sua moglie e sua figlia in compagnia di Franz.

- Giorgia - disse rivolgendosi a sua figlia - sii gentile prendi un bicchiere di buon vino al nostro amico.

Poi continuò verso sua moglie: lui è un caro confidente furiere Barbara. Un bravo ragazzo ligio al suo dovere! Un po’ sfortunato aggiungerei, ma ligio al suo dovere! - ripeté tirando giù d’un colpo il restante contenuto del calice.

Il tempo di scambiarsi una stretta di mano.

La sala era gremita di gente “per bene”, e Franz ebbe occasione di conoscere tanti “alti dirigenti” del campo in quella strana occasione.

Ma la circostanza più strana fu l’incontro con la figlia del suo amico ufficiale sicuramente sotto effetto di bevande euforizzanti!

Ella tornò con due raffinati bicchieri rivolgendosi direttamente a Franz con aria interessata: Prego bel giovine - disse.

E proprio in quel momento la piccola orchestrina invitò a ballare le coppie con una melodica armonia.

Si sentì l’ufficiale dire a sua moglie: Barbara mi concedi questo onore?! - e poi direttamente a sua figlia: intrattieni tu gli ospiti. Con permesso!

     A tal punto la scena divenne bizzarra! Franz si trovò in compagnia di una donna sconosciuta in una festa disprezzante, e gente con cui non condivideva nulla, compresi i loro stupidi sorrisi.

Cercò di far finta di niente.

Seguirono attimi di silenzio tra i due.

     Tu sei un furiere nell’ufficio di mio padre…- rompendo l’imbarazzo disse Giorgia.

- Già… rispose Franz.

- Ma non c’entri granché qui dentro vero? - proseguì la giovane.

Aveva intuito che nei suoi occhi c’era qualcosa che non andava.

Fece di tutto per trovare un punto su cui discorrere ma non ci riuscì.

Decise allora di prenderlo per mano e quasi contro la sua volontà lo portò a ballare.

- Dimmi. Che ci fai qui? - Gli chiese. Ma le sue parole erano trascinate.

- E’ una lunga storia… - prese a dire Franz - e non credo che sia opportuno raccontarla qui. Voglio solo che ora, alla fine di questo ballo io vada.

- Hey! Cos’è sono così poco carina?! - Riprese Giorgia con sorrisi e occhi assenti!

     Ed in realtà era una gran bella ragazza.

Vestita a festa la sua aria importante, peraltro, valorizzava ulteriormente il fine viso aristocratico con occhi chiari e lisci capelli neri sciolti a decorazione di un imbarazzante decoltè…

- No! È che avevi ragione tu… Non mi sento a mio agio qui dentro!

- Allora usciamo! - replicò mostrandosi ulteriormente.

     E riuscì a portarlo fuori da quella confusione.

Seduti in giardino cominciarono a colloquiare del più e del meno.

Ma Franz non si sbilanciò.

Era già troppo concentrato sul suo progetto e non distoglieva mai la sua mente da quel pezzo della sua vita che lì dentro soffriva insieme a lui.

     La situazione divenne man mano meno gestibile. Giorgia cominciò a fare strani apprezzamenti.

- Sai cosa pensavo? - gli disse. - Vado a prendere una bottiglia di champagne da bere qui insieme!

- Bhè io ti ringrazio - rispose Franz - ma devo proprio avviarmi. - E cercò di andar via il più galantemente possibile.

Invano.

Giorgia gli andò dietro.

Era un bel pò fuori! Probabilmente aveva bevuto troppo in quella festa così noiosa.

Lo afferrò di scatto e lo baciò.

Franz le strappò subito le braccia dal suo collo.

- Ora basta - gridò - smettila. E vai dentro ti prego. Sei ubriaca. Ed io e te non condividiamo assolutamente niente…

La risposta fu un’isterica risata.

- Ma tu mi piaci! Continuò Giorgia.

Le sorprese a quanto pare non erano finite!

La paura di subire una punizione a causa della figlia dell’ufficiale era eccessiva.

Franz prese fermezza.

     Ora vieni - le disse quasi afferrandola per non farla barcollare - ti riaccompagno.

E la riportò alla festa tra le frasi sconnesse e sconsiderate della giovane amante!

Lì finse di essersi divertito in un modo unico…

- Vi ringrazio infinitamente per questa fantastica serata - disse rivolgendosi all’ufficiale e a sua moglie - resto a disposizione per qualsiasi eventualità… ma è proprio il momento di rientrare.

- Va bene Franz… sono fiero di te… - si complimentò l’ufficiale - và pure. Domani ci vediamo.

Mentre i due discorrevano Giorgia continuava a sorridere giocando con un raffinato bicchiere semivuoto di champagne…

Franz salutò quasi con finto entusiasmo e rientrò al suo ufficio.

Quella serata gli fece capire ulteriormente i “valori” di quella gente.

Trascorrevano i giorni e in quel lontano Aprile arrivò il caldo cominciando a battere forte sul corpo dei deportati.

Fu proprio in quel periodo che un avvenimento spaccò ulteriormente il provato cuore di Franz.

     Arrivò un convoglio carico di Ebrei.

Il suo compito quel giorno era dirigerli nei luoghi di “attesa”, quando in lontananza notò il volto di un uomo che somigliava molto ad un suo caro amico.

Si avvicinò sempre più furtivamente a lui per non creare sospetti nei militari e man mano che diminuiva la distanza ne era sempre più sicuro.

Era Daniele, un amico di Foggia conosciuto per motivi di lavoro.

Quando fu vicino gli sussurrò con mirevole autocontrollo: Daniele! Perché sei finito anche tu qui?

Seguirono le lacrime il più possibile trattenute in gola.

- Franz! - chiamò stordito - Sei proprio tu! Ma dove siamo? Dimmi... Che faremo... Ci ammazzeranno? Cosa?

     Un’infinità di domande bombardarono Franz che non ebbe tuttavia né tempo né coraggio sufficienti per spiegare tutto.

Disse solo: “Daniele, prega tanto Dio. Lui sarà con noi sempre...”

L’empatico scambio di poche battute fu interrotto dagli urli nazisti che trascinarono Daniele nel gruppo dei nuovi arrivati.

     Franz fece di tutto per aiutarlo, persino rivolgendosi al suo “amico ufficiale”, ma invano.

Il suo destino era già scritto sullo strano libro della vita che ognuno porta con sé.

     Come un bambino che nasce stringe forte a se le mani del padre, abbracciando la nuova sfida di quella realtà così lontana dal mondo ovattato per nove mesi dolcemente vissuto, così ogni uomo si trova a fare i conti talora, con una condizione che non vuole, o che non ha scelto. L’alternativa è combattere per cambiarsela, laddove la vita ti regala un’opportunità.

Ma ad Auschwitz nessuno regalava niente, a volte neppure quel pezzo di storia che avrebbe concesso di vivere.

Per Daniele andò così come per tante altre vite.

Entrò nella sala delle docce per la sfortuna di essere capitato in un convoglio sovraccarico di uomini e un fisico non molto prestante.

Gli fu imposto.

Morì a trentadue anni lasciando nel cuore di Franz un incolmabile vuoto ed un’immagine indelebile per tanto, troppo tempo.

Quell’episodio segnò l’inizio di un impegno concreto per scappare da quell’inferno a tutti i costi.

Le uniche armi la fede e l’infinita sete di giustizia.

     Esistono cose per cui non può esistere la dimenticanza.

Alcuni avvenimenti li vorremmo cancellare per l’inconscia convinzione che non vorremmo fossero mai accaduti, ma poi risponde la realtà, lì ferma inamovibile nei tuoi pensieri, a dire che si possono solo tralasciare e non dimenticare. Prima o poi ritorneranno alla mente i ricordi anche quando non vuoi, quando sei fragile; quando l’unica soluzione ti sembra versare lacrime, in silenzio.

L’assurda “consolazione” era non aver visto soffrire un amico, uscito anzitempo da quella fabbrica di morte.

     Nella primavera del 1942, intanto, nello scenario storico internazionale, Mosca venne ancora una volta risparmiata dalle armate naziste e i sovietici riuscirono a schiantare le linee del fronte dell'Asse a sud,  circondando la Sesta Armata Tedesca nella battaglia di Stalingrado dove nel febbraio dell’anno 1943, i miseri resti dell'esercito tedesco forte di trecentomila uomini, si arresero.

Da quel momento in poi, l'Armata Rossa avrebbe avuto l'iniziativa ad est.

Al disastro tedesco di Stalingrado ne seguì un altro in Tunisia, con la perdita dell'ultimo caposaldo dell'Asse in Nordafrica e la cattura di venticinquemila soldati tedeschi e italiani.

Subito dopo gli Alleati invasero la Sicilia sfruttando gli avamposti conquistati.

Il 25 luglio Mussolini fu destituito e sostituito con il Maresciallo Pietro Badoglio.

L'Italia si arrese firmando l'armistizio il 3 settembre, reso poi pubblico l'8 settembre.

Gli uomini dell’armata tedesca stabilirono prò una serie di resistenti linee difensive sulle montagne, sfavorendo  i progressi degli alleati.

     Ad Auschwitz, le ore claudicanti passavano lentamente, accorpando attimi e secondi sempre più ardui.

Ester moriva dalla voglia di riabbracciare suo marito ma tutto era vietato… fino a quel 25 Luglio 1943, dopo sedici mesi di notizie rubate qua e la, quando Franz fu invitato dal suo “compagno” ufficiale in un ufficio situato nella parte di campo delle donne per delle comunicazioni importanti.

     In quel giorno Franz dovette comunicare una tragica notizia per l’alleanza italotedesca: il regime fascista cadeva favorendo l’arresto del Duce di fronte allo sbarco anglo-americano.

Il suo cuore traboccava di speranza nel vedere le iniziali fasi di una spaccatura negli ingranaggi di quell’orrore, e con tanta gioia molto ben celata nel più remoto angolo di cuore, entrò nell’ufficio con professionale funzione.

- Sig. generale sono qui per comunicazioni urgenti.

- Cosa vuoi?- rispose  infastidito.

- Lo sbarco nemico ha fatto cadere gli alleati fascisti...

- Cazzo...- pronunciò mostrando più attenzione.

Un silenzio riempì la stanza.

Poi riprese: Voglio tutti i capi nel mio ufficio oggi pomeriggio alle 15:00.

- Agli ordini signore. Comunicherò. - ed uscì.

     Allontanandosi da quel freddo ufficio si avviò per ritornare nella sua zona, quando ad un tratto, tra i mille volti di donne sfinite dal lavoro scorse lo sguardo di Ester.

Non sembrava lei ma lo sguardo le apparteneva.

Il suo corpo ormai molto gracile cancellava i tratti del suo viso così pulito e delicato...

Tra una gioia incontenibile ma un aspetto di premiata indifferenza si avvicinò sussurrandole: Ester..

- Amore... -  gli bisbigliò incredula.

Le parole si fermarono in gola non potendo né abbracciare né baciare sua moglie, il tempo e la sorveglianza non lo permettevano…“Franz, - pronunciò con voce rauca - mamma ed io non ce la facciamo più... mamma continua a dire che non vede l’ora di farla finita...”

- Sta per terminare tutto amore. Tenete duro. Sta per finire…

     Lo scambio fu interrotto dalla corsa di un militare verso di loro. Erano stati scoperti.

La guardia si avvicinò sospettosa a Franz gridando: Tu che fai qui?!

- Niente… questa donna mi ha chiesto che giorno è oggi... - provò a fingere.

- Chi sei? - continuò urlando la guardia.

- Sono un furiere. Sono qui per comunicazioni importanti al capitano. . .ma ora vado ok?

- No. Tu vieni con me. Cammina.

E con uno strattone prese Franz per condurlo dal Generale del campo.

Una volta li dentro disse: Scusi sig. Generale, quest’uomo parlava con una donna.

Gli fece un segno: Lascialo qui. Puoi andare…

Poi riprese nei confronti di Franz: Bhè…?

    Il generale era l’ufficiale  “suo amico” che gli diede il ruolo di prominent, nonché colui che lo aveva inviato  per comunicazioni urgenti…!

- Chiedo scusa... ma era mia moglie… non la vedevo da chissà quanti mesi... - si scusò Franz.

- Ma  sai che metti nella merda anche me così...? - replicò molto nervosamente.

- Scusate ancora. Non si ripeterà. - concluse Franz.

- Vattene…- Chiuse il discorso il generale.

Il buon Dio gettò il suo sguardo su Franz ancora una volta… ma il suo obiettivo restava chiaro nella sua mente...

    

L’iniziale utopia perdeva sempre più il suo aspetto quando il 12 Settembre 1943, nonostante Mussolini fosse stato liberato da paracadutisti tedeschi, ponendosi nuovamente a capo della Repubblica Sociale Italiana, la penisola divenne campo di battaglia per lo scontro tra le forze di colore opposto.

     La lotta contro i nazi-fascisti venne infatti condotta con vigore dalla “Resistenza”, costituita dall’azione armata e clandestina delle “brigate partigiane”, composte da liberali, monarchici, socialisti, comunisti, cattolici e seguaci del partito d’azione.

La “Resistenza” italiana, poi riunita nel CVL (corpo volontari della libertà), presieduta da Bonomi, il 13 Ottobre 1943 dichiarò guerra alla Germania.

     Qualche mese più tardi gli statunitensi iniziarono una settimana di bombardamenti delle fabbriche di velivoli tedesche.

In Italia, gli ordini repressivi furono sempre più feroci, prelevati ostaggi, distrutti interi paesi, ordinate esecuzioni di massa innocenti come fu quella compiuta nelle Fosse Ardeatine il 24 Marzo 1944 nei pressi di Roma, dove trecentotrentacinque detenuti politici o semplici cittadini furono barbaramente uccisi per rappresaglia in seguito alla morte di trentadue militari tedeschi per mano di militanti partigiani.

L'offensiva sovietica sul fronte orientale logorava, nel frattempo, le armate tedesche facendole arretrare oltre i confini originali dell'URSS e dove gli Alleati diedero una grande svolta al conflitto con una battaglia tremenda dove morirono centinaia, forse migliaia di uomini lasciati al destino di chi sapeva che non esistevano più regole, l’unico principio era salvarsi.

Passò alla storia come “lo sbarco in Normandia” , il luogo in cui fu invasa la Francia settentrionale con l'Operazione Overlord.

     Nel giro di circa dieci giorni l’esercito tedesco si trovò di fronte ad un milione di uomini nemici e trecentomila automezzi bellici sotto una interrotta pioggia di fuoco dalla terra e dal mare.   

     Contemporaneamente all'invasione della Francia, gli Alleati conquistarono Roma, e in poche settimane, il resto dell'Italia Centrale.

     La notizia fuggì subito all’interno dei campi di concentramento allarmando i vari addetti alla difesa nazista.

Ad Auschwitz ogni qualvolta filtravano queste notizie, si respirava aria di libertà, ancora lontana, ma saperla viva allietava l’esistenza dei detenuti.



Franz, avvalendosi del suo ruolo, non faceva altro che fomentare gli spiriti al sorriso.

La Germania iniziava a soccombere.



I mesi trascorrevano però sempre più ardui, ed il nero inverno strappò tante, troppe anime già duramente provate da circa quattro anni.

     Lì tutte le stagioni erano uguali, la neve di Dicembre cadeva sulla stessa casacca numerata dei deportati indossata anche nel torrido caldo dei mesi estivi.

     Ester e i suoi genitori si aspettavano una morte per assideramento, non restava che sperare, non riuscendo neppure ad immaginare la parola fine.

Ma non poteva terminare così.

     In Italia le truppe alleate, invero, giunsero dapprima nella città di Napoli, per poi concentrare le forze sul fronte della cosiddetta linea Gustav, tratto fortificato che tagliava trasversalmente la penisola dall'Adriatico al Tirreno nel punto più stretto.

Il puzzle di quell’orrendo pezzo di storia stava per completarsi definitivamente.

Hitler avrebbe visto ben presto il tramonto della propria gloria infame.

     I campi di sterminio diventarono sempre più duri per i deportati a causa della prepotenza nazista e del loro rifiuto di arrendersi.

     Franz e la famiglia Grunspan, come gli altri migliaia di prigionieri, iniziavano a respirare aria di libertà, sapevano bene che di li a poco sarebbero stati salvati.



Il cielo offriva un chiaro manto di stelle quando il megafono, ad Auschwitz, proclamò un’adunata urgente in radiodiffusione: “Tutti gli ufficiali i militari e i prominent convocati. Adunata urgente.

Erano circa le due.

Una sirena ruppe il silenzio di ghiaccio che sovrastava il campo.

     In pochi minuti tutti furono al cospetto del generale il quale aprì il suo discorso con una preoccupazione molto lontana dai suoi canoni di ostentata sicurezza, e pronunciò: “Hanno attaccato la nostra base in Italia distruggendo tutto. Stiamo affondando.

Non possiamo veder finire la nostra potenza, dobbiamo reagire...”

Le frasi erano brevi, fredde e piene.

Il suo sguardo di pietra.

Poi continuò: Il Fuhrer ci ha ordinato di far morire di fame tutti gli ebrei nei campi. Chi si ribella verrà fucilato senza esitazione. Sono stato chiaro? Andate.

    

Franz come furiere, in cuor suo aveva assistito a quella riunione riempiendosi di infinita inquietudine.

Tutti uscirono immediatamente dalla stanza tranne lui, preoccupato per Ester e i suoi suoceri.

Il generale lo vide li fermo e disse: Che ci fai ancora qui? Cosa vuoi?

-  Sig. generale sono stato sempre fedele ai suoi ordini in questi anni, ma la prego, revochi l’ordinanza, non può ammazzare tutta questa gente...

Ribatté alzando le spalle: Ordini superiori…

E buttò giù un bicchiere di whisky.

Poi riprese: Ti va un bicchiere Franz?! Beviamoci su! — accennando uno stupido sorriso.

- No! - annunciò deciso Franz - Almeno mi faccia salvare la mia famiglia...

- Stai chiedendo la luna! Mi possono accusare di patteggiamento con gli alleati... morirei prima di questa gente!

- Mi farò fucilare al posto vostro se dovesse andar male. Dirò che vi ho tradito.

- Franz... - prese dicendo il generale quasi con un affetto fraterno - salvati almeno tu... se ci riesci...

- Non può fare questo. Non può. - gridò forte nella stanza. - Mi faccia salvare la mia famiglia…

- … lasciami solo. Domani per me potrebbe essere anche tardi ...!

Fece un isterico tiro alla sua sigaretta già immaginando l’atroce epilogo della guerra.

Poi riprese: Dimentica il mio nome. Se vuoi un parere nascondetevi stanotte. L’ordine é sparare a vista… Ora vattene.

Con queste fredde frasi congedò Franz consentendogli implicitamente di salvarsi.

- Agli ordini signore. -  e salutò militarmente.

Con questi termini abbandonò l’uscio della porta e scappò nel buio per intraprendere l’impresa più ardua: portare in salvo i suoi suoceri, Ester e quanta più gente possibile.

     La prima azione da compiere era andare nella parte di campo ospitante le donne, adiacente all’ufficio del generale, pur essendo quella una zona blindata e dove accedervi era difficilissimo anche a causa del faro di controllo che nella notte correva molto più veloce di un uomo.

Franz però era determinato a giocarsi la pelle.

Iniziò a correre veloce verso la rete spinata.

Raggiunta!

Si nascose nel buio angolino creato da un piccolo muretto, e fermo impassibile si ripiegò su se stesso per non farsi scorgere dalla luce del faro.

     In quei due minuti di attesa tra fiatone e palpitazioni alle stelle studiò il modo per scavalcare la recinzione.

Era praticamente impossibile.

Pensò allora di aggirare l’ostacolo scavando la terra con le mani così da passarci sotto, ma si rese conto che lì, non molto distante, c’era un altro piccolo fosso, come se qualcuno lo avesse fatto prima di lui…

Un pò preoccupato, ma risoluto, decise di utilizzare quella “strana coincidenza” che altri avevano forse utilizzato per distinti motivi.

Incominciò a riscavare sulla terra accuratamente risistemata in quel buco, fino a sentire un tremendo dolore, ma non si fermò.

Tra la sporca polvere e il colore delle ferite procuratesi continuò finquando non riuscì ad infilarsi sotto come un agile felino.

     Entrato lì dentro iniziò a cercare Ester e sua madre all’interno delle decine di stanzoni presenti.

Di punto in bianco, tuttavia, da una periferia di quella zona sentì un gemito.

Pensò subito ad un lamento di dolore di qualche prigioniera. Ma non proveniva da nessuno stanzone.

“Ma cos’è…” pensò nella sua mente…

Volle avvicinarsi per cercare di capire meglio cosa stesse accadendo, muovendosi furtivamente nel buio fitto di quella notte. Giunto nei pressi di quel “rumore” tirò fuori una piccola torcia recuperata nel suo ufficio.

L’opaca luce, resa abbagliante nell’oscurità, mostrò una scena allucinante: un uomo e una donna intenti in atti passionali, nascosti al di sotto un bancale di attrezzi.

Non appena i due si videro puntare la pila si risistemarono le vesti senza proferir parola.

Pensavano fosse una guardia armata che li aveva scoperti e rimasero abbracciati quasi disposti a morire, ma insieme.

Franz esterrefatto ruppe il silenzio dell’imbarazzante scena avvicinandosi ulteriormente: Ma… ma cosa fate… siete pazzi…

Rispose l’uomo: Non vedevo mia moglie da un anno e mezzo signore… ho meditato mesi interi su come raggiungerla… - poi cominciò a piangere - Ci avete privato della dignità di vivere… Vigliacchi. Voi non siete uomini, i veri uomini combattono ad armi pari… potete comandare le nostre vite ma mai il nostro cuore. Ammazza me. Lasciala libera.

- Non ammazzerò nessuno - riprese Franz - anzi ammazzeranno anche me se ci vedono qui…

- Ma allora… chi sei…? - chiese la donna timidamente appagata da quella risposta.

- Non sono un soldato… ma uno di voi… non guardate la divisa… Ora scappa via… - pronunciò rivolgendosi all’uomo - la guerra sta per finire e questi bastardi moriranno tutti, ma non dovete fare simili imprese… avvisa gli altri internati e tenete duro, scovate ripostigli e nascondetevi se potete. Ora andiamo… qui è troppo pericoloso.

La coppia si separò con un bacio colmo d’affetto.

- Grazie buon uomo. Dio ti benedica. - proferirono.

Poi si dileguarono di corsa tornando alle proprie stanze.

Il breve dialogo lasciò trasparire l’agitazione dei tre e la paura della morte, fortunosamente scampata in un modo ineguagliabile.

Ancora completamente scosso, Franz ricominciò a bussare nelle varie case che ospitavano almeno cento donne ciascuna.

     Ad ogni finestra sussurrava lievemente: Ester, Elisabette...

- Qui non c’è nessuna di loro… vattene... - era la risposta più comune.

Il timore era infatti reciproco...

Ma Franz non perdeva occasione per aiutare chiunque. Per lui salvare anche una sola anima era sottrarre alla morte una parte di se stesso.

     Una frase risuonò in tutte le stanze: “Nascondetevi se potete... saranno giorni duri ma è finita...”

Ad un tratto in una camerata bisbigliò di nuovo: “Ester, Elisabette...”

Le donne più vicine alla grande finestra assistettero impaurite alla scena.

Poi all’improvviso una voce delicata spuntò dal terzo letto a castello in alto a sinistra: Franz... Franz... siamo qui...

- Dove sei? - sussurrò nuovamente.

- Eccomi Franz, guarda qui su... siamo qui...

     La luna piena a malapena illuminava gli sfigurati volti.

- Finalmente… dobbiamo scappare... - poi rivolgendosi a tutte disse: Resistete... è quasi finita… non vi opponete mai, saranno ancora più duri questi giorni ma dovete farcela…  poi riprendendo verso Ester: Dai, scendete e venite con me...

- Ma io non ce la faccio Franz...- rispose Elisabette.

- No. Ce la devi mettere tutta. Ti aiuto io. Dai su di corsa.

- si… ma dov’è papà?

- non preoccuparti, sta bene… ora andiamo via… via...



Ebbe inizio la fuga verso l’ultima speranza strappata dalla determinazione di Franz e ospitata da un ripostiglio sotterraneo da tempo inutilizzato.

La corsa disperata sembrava correre più della luce dell’attento faro.

     Trapassarono il recinto per giungere nuovamente nella zona degli uomini.

Elisabette ed Ester si fermarono aspettando Franz intendo a sistemare la rete per non destare sospetti.

Poi di nuovo a correre.

     Erano quasi giunti, pochi metri li separavano oramai dalle ultime speranze, quando il faro puntò delle ombre nella notte.

Si nascosero stretti al muro adiacente il punto illuminato. Falso allarme.

Il faro ricominciò a fare la ronda.

L’ultimo respiro trattenuto in petto li condusse finalmente in quel buco senza luce.

     Scendendo le fragili scale in legno con la torcia di fortuna, ad accoglierli c’erano vecchi oggetti da buttare, insieme a diversi bagagli inutilizzati dei deportati in circa dieci metri quadri.

- Siamo arrivati! - Sorrise Franz soddisfatto - Qui sarete al sicuro. Non uscite per nessun motivo al mondo. Penserò io a tutto. Ora devo andare, papà mi aspetta!

E furtivamente scappò verso la camerata in cui si trovava Joseph.

Giunto lì si fece aprire la porta: “Papà di corsa... andiamo...”

Poi sussurrò agli altri internati: Resistete... tra non molto quest’inferno finirà...

Ricominciò  una fuga apparentemente interminabile.

Il silenzio acuito dalla stanchezza fu interrotto da un’osservazione di Joseph: “Franz, figliuolo, hai un fegato di ferro...”

- Grazie papà... ma anch’io ho paura...

     Il rapido dialogo fu interrotto dall’improvviso blocco del faro a circa un metro da loro.

- Cazzo... è finita... - esclamò Franz.

- No... Se ci avessero scoperti avrebbero sparato...! - osservò Joseph.

- Allora perché si è fermato....?

- A quest’ora cambia la sentinella… ho osservato per intere notti quel faro...

- Spero tanto che tu abbia ragione papà...

Fortunatamente la paura fu immotivata.

Ogni notte, intorno alle tre, il faro si bloccava per circa due minuti proprio per la turnazione della guardia.

     Dopo circa cento secondi ripresero a muoversi verso il rifugio, agevolati dalla posizione della luce.

- Eccoci … arrivati. - pronunciò con affanno Franz.

Il silenzio fu schiacciato da lacrime di gioia e dolore.

Purtroppo, però, Franz non poteva mancare molto dalla sua postazione e visse intensamente quei minuti per poi ritornare presto nel suo ufficio.

     Quella notte portava con se mille sentimenti.

La gioia nella speranza della salvezza era mista alla paura, all’orrore, al dolore di quel luogo.

- Devo andare ora. - disse - Vi verrò a trovare io. Non muovetevi di qui. Non uscite per nessun motivo.

E scappò via per tornare al suo incarico dove c’era una sentinella suo collega ad attenderlo.

Non appena lo vide gli disse: Franz! Come mai così sporco e affaticato?!

- Ah niente… son caduto dopo essere uscito dall’ufficio del generale!  Brutta botta! Sono inciampato causandomi una bella ferita! E son passato in infermeria… per questo ho perso tempo…

- Hahahahaha! - prese a ridere - Pensavo che ti eri adoperato per salvare qualcuno di questi animali…!

E continuò la sua grassa stupida risata.

Franz sorrise… avrebbe voluto pestare quell’uomo che per lui altro non era che un incosciente esecutore.

  

Auschwitz divenne scenario di cruente persecuzioni soprattutto nei mesi precedenti la sua liberazione e Franz dovette assistere all’uccisione feroce di migliaia di internati.

Il suo cuore sembrava dilaniarsi perché impotente, poteva solo assistere alle atrocità tenendo in silenzio la sua rabbia.

     Tra gli eccidi avrebbero potuto esserci Ester, Elisabette, Joseph e chissà quanti altri internati se il suo eroico coraggio non avesse costruito una barriera d’amore.

     L’eroe è una persona semplice che in situazioni straordinarie compie atti straordinari.

Franz lo fu.

In quei mesi rischiò continuamente la propria vita per trarre in salvo centinaia di vite di uomini, donne e bambini all’interno del campo.

     Nella sua mente la parola libertà cominciava a risuonare sempre più robusta.

Era convinto che ce l’avrebbero fatta.

I suoi sogni furono continuamente alimentati dal sorriso di quanti trovavano rifugio e dall’amore per la sua famiglia che quasi giornalmente incontrava per passar loro il poco cibo che riusciva ad occultare.

     La guerra mondiale nello stesso tempo stava segnando quasi il suo epilogo.

Malgrado il segnale della strapotenza e della determinazione alleata, nonché delle innumerevoli perdite tedesche, Hitler continuava a sperare di poter capovolgere le sorti del conflitto con le nuove armi segrete: missili, aeroplani a reazione, bomba atomica; alla costruzione delle quali, in lotta contro il tempo, lavoravano ininterrottamente centinaia di tecnici altamente specializzati.

Nel novembre 1944, per paura dell'avanzata dell'Armata Rossa, Himmler dava ordine di cessare le esecuzioni nelle camere a gas, e lasciava demolire sia le camere a gas stesse che i forni crematori allo scopo di nascondere le prove del genocidio.

A quell'epoca ad Auschwitz erano stati uccisi oltre un milione e mezzo di esseri umani.

     Il 20 Novembre contava diversi gradi sotto zero, vicino un nero, bianco manto di neve.

     Franz in quella notte procurò ad Ester e ai suoi genitori delle coperte in lana per coprirsi dal freddo glaciale.

Tre di notte.

Cambio della guardia.

E via di corsa per un’altra avventura.

Giunto al rifugio avvisò a bassa voce: “Ester… Ester… Sono io Franz…”

Tremavano dal freddo nonostante un posto al riparo e i vari indumenti di fortuna recuperati all’interno del seminterrato.

Le labbra scure e le mani irrigidite di Ester aprirono la porta.

- Franz… balbettò dal freddo.

- Amore. Prendete queste coperte in lana e un pò di pane che son riuscito a procurare…

Un bacio sui pallidi volti salutò quei minuti di desiderio verso un qualcosa di grande, mentre la follia hitleriana, nella speranza di capovolgere le sorti del conflitto, si manifestò invero presto illusoria.

     Dopo una disperata reazione dell'esercito tedesco nell'Offensiva delle Ardenne ("La battaglia dei giganti") del dicembre 1944, gli Alleati entrarono infatti in Germania sancendo ufficialmente gli ultimi giorni della sopravvivenza del lager principale: Auschwitz I.

     Verso la fine del Gennaio 1945, il meccanismo dell’organizzazione della macchina della morte, risultò fatalmente inceppato causando disordini e confusione anche tra i gli alti funzionari dell’esercito.

I primi a far perdere le tracce furono proprio i capi delle SS, coloro che avrebbero dovuto gestire le circostanze!

Ma quando si tira in ballo la propria sporca pelle non conviene più rischiare.

Franz, dal suo ufficio, seppe del capolinea tedesco da circa due settimane ma era troppo pericoloso svanire così presto.

L’occasione propizia si presentò il 25 Gennaio, momento di totale panico dei militari.

Prima però volle tentare di mettere in salvo altre vite.

     Intanto che ciascuno dava ordini scomposti, qualche giovane armato iniziò a piangere dalla paura di morire o della prigionia sovietica.

Scene pietose.

     All’alba del 25 Gennaio 1945 Franz scappò nella notte.

Con sé uno zaino militare, qualche paio di anfibi, un pò d’acqua e veloce con la solita procedura: tre di notte, cuore in gola, gambe e cuore.

Una corsa contro il faro e subito giù al primo muretto… Via libera…

Pervenuto al reparto degli uomini incitò tutti alla fuga e al rifugio.

L’alternativa era morire.

Lo stesso fece nel reparto femminile tra corse disperate ma rese più semplici dalla caduta delle ferree misure di sicurezza.

In quei due giorni precedenti la liberazione molti uomini, donne e bambini riuscirono a salvarsi grazie al suo coraggio.

     Finalmente rientrò anche lui nel seminterrato dove restò per circa quarantotto lunghe ore, mentre il campo divenne un continuo trambusto di auto, mezzi militari, camion e sirene in allarme continuo.

     Tra gli assordanti rumori, quelli più tristemente riconoscibili erano i colpi di fucili che rispondevano agli spietati ordini delle fucilazioni di massa.

     Centinaia di corpi che dopo circa quattro anni di scampata morte nel lager avevano cancellato la parola vita, la persero proprio quando le loro gelide braccia si alzarono per gridare pietà.

Gli ultimi minuti, racchiusi in quei grandi occhi furono i più orribili.

     Le decine di rifugi già occupati, nel momento in cui venivano scoperti da altri internati “ritardatari”, sembravano scacciarli non potendo contenere altre vite.

Sotterranei, fossi ricoperti, botti, cassette in ferro, e tant’altro, divennero luogo d’accoglienza per centinaia di prigionieri.

     La vigilia della vittoria alleata veniva sancita da incendi e barbare fucilazioni, anarchia pura, sgomento, terrore… ma anche da quella speranza di tornare a vivere, da quelle ultime lacrime che i fragili corpi riuscivano ancora ad emettere, da quella voglia di dignità cancellata anni addietro.

     Era finalmente l’alba di un nuovo giorno: il 27 Gennaio 1945 giorno della liberazione del campo per mano delle truppe sovietiche.

La prima armata che entrò nel lager fu la LX Armata del Primo Fronte Ucraino.

Vennero trovati circa settemila prigionieri ancora in vita.

     In quel giorno, il malinconico silenzio, nel cinereo scenario di interminabili corpi abbattuti, fu rotto dal rumore dei carri armati sovietici e dal saluto di un esercito “amico”.

     I russi gridavano a gran voce di venir fuori, immaginando già i vari “rifugi”.

Oramai erano salvi.

Le grida degli ufficiali alleati dissonavano nettamente dai ferrei comandi tedeschi; persino il rumore dei carri armati era felicemente familiare.

Nessuno, tuttavia, osava uscire dai propri ripari.       

     Il primo coraggioso che ruppe il ghiaccio era un uomo solo nelle sembianze, usci via da un fosso in superficie che gli salvò la pelle.

Mani verso il cielo, occhi increduli, sguardo assente.

“Siamo salvi!” - pronunciò debolmente.

Poi istericamente in un pianto commovente implorò i soldati di portarlo via di lì.

     Quell’urlo segnò l’inizio di una processione di rifugiati.

I nascondigli che prima sarebbero stati pagati a prezzo di sangue, furono abbandonati senza ricevere neppure più uno sguardo, dai loro “locatari”.

Franz e i Grunspan, dopo l’ultima notte insonne fecero lo stesso.

     Auschwitz, in quel gelido giorno di sole, tra le lacrime di gioia dei sopravvissuti, sembrava quasi avvenente.



In totale furono deportate più di un milione e trecentomila persone.

Novecentomila furono uccise al loro arrivo.

Altre duecentomila morirono a causa di malattie, fame o assassinate poco dopo il loro arrivo.

     Vennero trovati migliaia di indumenti abbandonati, oggetti vari che possedevano ai prigionieri prima di entrare nel lager e otto tonnellate di capelli umani imballati e pronti per il trasporto.

     Dopo la pesante sconfitta, segno di evidente debolezza, per la fortezza tedesca fu l’inizio di un indigesto capolinea.

Nella primavera dello stesso anno gli alleati ripresero l’offensiva su tutti i fronti: gli anglo-americani passarono il Reno e marciarono verso il cuore della Germania polverizzando le città tedesche con tremendi bombardamenti, mentre i sovietici occupavano la Prussia orientale.

Quasi contemporaneamente la resistenza tedesca crollava anche sul fronte italiano sancendo la Liberazione d’Italia il giorno del  25 Aprile 1945.

Il 28 Aprile il Duce venne fucilato a Giulino di Mezzagra, sulle rive del lago di Como, da una formazione partigiana, mentre nello stesso periodo convogli anglo americani entravano vittoriosamente nei vari paesi nella penisola… tra cui anche Apricena…

     Lo scenario rievocava quasi l’accaduto di due anni prima all’interno del piccolo paese garganico quando il 25 Settembre 1943 (come possiamo rinvenire dal libro “Apricena” di Nicola Pitta), un gruppo di guastatori tedeschi assalì improvvisamente la stazione di Apricena addentrandosi nel paese e creando terrore e scompiglio.

Le vie divennero deserte con un insistente silenzio di tanto in tanto interrotto da qualche passo di persona che cercava di raggiungere la propria abitazione, giacché vi furono parecchi che rimasero costretti a passare in veglia la notte presso parenti e amici.

Verso le 23:00 del 26 Settembre la storia di Apricena stava virando verso uno dei suoi più cupi ricordi.

L’esercito tedesco, dopo aver trafugato una buona quantità di farina, dava fuoco allo stupendo mulino della S.A.M.A. che si erigeva sul lato destro della villa comunale.

Le fiamme divoratrici, aiutate dall’impetuoso vento, distrussero in poche ore il pastificio ed il mulino, costituendo i cinquemila quintali di grano ivi in deposito, in un remoto ricordo.

Sul far della sera del mercoledì 29 Settembre, intanto, il telefono annunziava da Cagnano Varano, che camion inglesi erano diretti verso il paesino.

Cinque giorni dopo, cinquantasei carri armati inglesi, giunsero nel centro come annunciato, tra gli applausi della popolazione.

Ritratti di Garibaldi indicavano un motto: “Questi sono i vostri veri amici!”, nell’atto di indicare le bandiere alleate.

Di fatto avvenne che l’arrivo degli inglesi ridonò subito l’acqua, ritornata a fluire dalle pubbliche fontane dopo l’interruzione causata dalla rottura dei tubi operata dal nemico in fuga.

     Finalmente la giustizia poteva essere sommariamente amministrata dal Governatore che giungeva da San Severo quando il caso lo richiedeva.

Tale situazione transitoria era destinata a protarsi per circa altri due anni, fino alla fine del conflitto, tra cortei esultanti bandiera rossa e soldati inglesi che per ammazzare il tempo non perdevano occasione di andare in cerca di “donnine allegre” che fino a ieri osavano appena far capolino ai crocicchi delle strade!

    

Ma tornando a noi…

…Dopo la liberazione della penisola i molti altri campi di sterminio ancora operanti divenirono ancor più sedi infernali, in maggior numero quando le armate sovietiche invasero Berlino devastandola e apponendo lo stendardo con falce, martello e una stella, sul Reichstag, sede del parlamento.

Era il 30 Aprile 1945.

     Questa volta la guerra in Europa era veramente finita, e mentre nei sobborghi si consumavano le ultime battaglie fra le macerie delle case, Hitler si suicidava nei sotterranei della cancelleria del Reich.

     Pochi giorni dopo, il 5 Maggio 1945, le truppe americane liberarono l’ultimo campo di sterminio rimasto in piedi: Mauthausen.

     I deportati sopravvissuti, con corpi gracili, stanchi e tramortiti, dopo la liberazione osservarono lo stesso percorso dei mesi precedenti, ad Auschwitz.

     Una fila di uomini, donne e bambini, per anni privati della dignità di vivere, percorrevano adagio le vie malsane, anch’esse testimoni dei pesanti scontri armati.

Le migliaia di ammalati e inabili impossibilitati ad ulteriori sforzi, trovarono ospitalità sui mezzi militari esonerandosi dalla lunga “passeggiata” verso le basi che li avrebbero smistati per le proprie destinazioni.

     Dopo alcuni giorni di cure per i casi più gravi, un pò di cibo e qualche abito da indossare, vennero messi sui treni del ritorno, ognuno a seconda della propria residenza.

     Franz e i Grunspan risalirono su quegli stessi vagoni merce che pochi anni prima li avevano trasportati verso l’orrore.

Le scene erano simili, cambiavano le coscienze.

     Quei convogli che fecero paura e che viaggiarono verso una destinazione ignota, ora assumevano un altro significato.

Nonostante il lungo viaggio che li attendeva, la voglia di respirare libertà alimentava quel tempo per ritornare alle proprie vite.

Dopo circa trenta giorni di viaggio, che a causa delle linee ferroviarie distrutte li costrinsero a numerosi cambi di rotta, i Grunspan e Franz stavano per giungere nei pressi della Puglia dove poche ore li separavano ormai dalla stazione ferroviaria di San Severo.

Paesaggi più o meno conosciuti, anch’essi devastati dall’atrocità della guerra.

Franz ed Ester in quei giorni non facevano altro che ricordare i primi stupendi periodi del loro amore, e stretti per mano non smettevano di pensare al domani.

     Nelle viaggianti stanze di ferro, c’era anche spazio per tutti quei deportati che nei campi di sterminio avevano perso, spesso sotto i loro impietriti sguardi, parenti o amici.

C’era posto per una storia che molti, troppi, non hanno voluto, per dei fisici deformati dalle diete e dal lavoro nazista.

C’era anche posto per chi da solo, dopo aver perso praticamente tutto, doveva andare alla ricerca di quella forza per ricostruirsi una vita, prendendo spunto dall’uomo che era stato ieri.

Tra i sentimenti dissonanti, tutt’a un tratto, una voce gridò: “Stazione di San Severo!”

     Una gioia condivisa da quanti potevano scrivere la parola fine,  illuminò i volti dei passeggeri.

Dopo alcune centinaia di metri il convoglio si fermò. Alcuni militari aprirono le ferraglie finché molti, quasi impauriti, scesero accolti da una premeditata giornata di sole.

     Nelle campagne San Severesi molta gente, tra cui parenti e amici scampati alla falce della guerra e rimasti nei paesi di residenza, giunsero al capolinea informati dall’arrivo di molti deportati e sperando di riconoscere qualcuno dei propri cari.

In uno scenario inverosimile le ore 10:00 di quel giorno accoglievano sguardi che si incrociavano dopo interminabili anni di crudele assenza.

     Chi ebbe la fortuna di riconoscere i propri cari non trovava il fiato per parlare.

Lacrime miste ad abbracci, interrotti da occhi fissi.

E nuovamente abbracci.

Le centinaia di corpi, quasi tramortiti, dai capelli semirasati, e molti chili in meno, potevano solo richiamare l’aspetto di qualche anno addietro.

     Anche ad Apricena si sparse la voce dell’arrivo di una carovana dalla Germania e tra i cittadini ognuno cercava di immaginare il numero di vittime e dei dispersi.

Si organizzarono volontari e mezzi comunali per giungere all’appuntamento con i sopravvissuti.

     Thomas Streicher e sua moglie Barbara Kohler, un tempo quasi nemici dei Grunspan, bruciarono quello stupido sentimento dell’odio che per molti anni condizionò la loro vita, iniziando a far posto ad uno spiraglio d’amore.

     Nel momento in cui ricevettero notizia, Barbara prese a dire a suo marito Thomas: “ Thomas! Hai sentito? Sembra che a San Severo stia giungendo un treno dalla Germania… Andiamo anche noi…

Nel cuore di madre vegliava e si alimentava senza interruzione, vigorosa, la speranza di riabbracciare suo figlio.

Thomas le disse: Ma Barbara… chi ci assicura che Franz è lì…?

- Ti prego Thomas. - sembrò implorare - Nostro figlio potrebbe essere ancora vivo…



La lotta armata aveva dipinto anche nei loro cuori stanchezza e voglia di ritornare ad una vita serena.

La guerra non ha mai niente di buono, né nulla di positivo, miete solo vittime e terrore, ottembra le menti perverse di quanti la reputano mezzo di potere, regala gloria a pochi, proprio a coloro che restano a guardare  in poltrona gli stendardi di sangue calpestati dai conflitti.

     Anche la famiglia Streicher, che non visse la disumana esperienza dei lager, capì che era giunto il momento di smettere di guardare i propri simili dall’alto verso il basso.

La loro agiata condizione economica permetteva di possedere un’automobile, e senza indugio partirono affrontando il breve tragitto di circa dodici chilometri che tuttavia sembrò interminabile.

Sul percorso, ancora vivi i segni della devastazione bellica  rallentavano ulteriormente la velocità dei mezzi.

Pervenuti a San Severo sembrava inverosimile la folla di uomini e donne che vi accorrevano.

Giunti nei pressi della stazione, o di quello che ne restava, Barbara e Thomas scesi dall’auto si incamminarono celeri verso i binari, che ospitavano scompartimenti oramai scarichi di ex deportati, i quali attendevano di essere sistemati per le partenze nei paesi limitrofi.

     Franz si alzò sulle punte dei piedi per cercare di intravedere volti amici. La sua mano sulla fronte evitava di essere accecato dalle calde sfere di un brillante sole.

Da lontano sembrò scorgere i suoi genitori tra la gente.

Somigliavano molto perlomeno. Ma fu incredulo.

Man mano si avvicinavano, tuttavia, l’immaginazione si tramutava sempre più in un qualcosa di verosimile.

Disse ad Ester: Amore, laggiù mi sembra di intravedere mia madre… ed al suo fianco mio padre…

Il suo cuore batteva sempre più forte.

- Dove? - osservò Ester - Non riesco a percepire niente tra tutta questa gente!

- Si laggiù vedi… - indicò un punto - quella è mia madre…e il signore a fianco mio padre… si sono loro…

Una corsa improvvisa tra la folla ruppe l’adeguarsi all’attesa.

La scena si dipinse di un materno affetto con emozione indescrivibile, come quando le parole non riescono ad esprimersi.

Un altro volto dell’amore.

Allorché Barbara e Thomas videro un giovane correre verso loro capirono che si trattava di loro figlio.

     Un corpo provato, ma non troppo, sporco e stanco, con l’esultanza di chi l’ha scampata.

Iniziarono a corrergli anche loro incontro.

Barbara gridò: Franz!

- Mamma… papà…- si sentì echeggiare.

La distanza si dissolveva attimo dopo attimo.

Giunti a pochi metri si guardarono negli occhi senza proferir parola.

Gli sguardi annebbiati dalle lucenti lacrime, si alternavano alle frasi strozzate in gola.

Le energiche strette intorno al collo si trasformavano in baci e poi in silenzi in modo difforme.

Niente parole. Anni di violenta separazione.

Più in la Ester, suo padre e sua madre, abbracciati osservavano la scena.

Poi Thomas Streicher si incamminò verso di loro.

Li raggiunse e disse con un dignitoso rispetto: “Come potrete mai perdonarmi…?”

- Vale lo stesso per noi. - Rispose Joseph - Questi anni ci hanno cambiato la vita…

Si strinsero tutti con l’aria di chi ha smesso di vivere con un cuore malato, e tra la gioia resa carica dalla strana assenza di rumori, si incamminarono verso l’auto.

La fine di un incubo, quasi vita, quasi casa.

Barbara cucinò per tutti un buon sugo con  funghi freschi che nessuno avrebbe avuto il coraggio di cogliere tempi addietro.

Le famiglie, “grazie” alla guerra, furono in pace.

     La vita è anche questa, piena talora di incomprensibili incoerenze...

    

Bisogna per forza soffrire per comprendere certi valori?

Bisogna necessariamente cadere per capire che l’asfalto è duro?

L’uomo troppe volte commette questo errore, non si rispetta in vita per piangere il giorno dei funerali, e vivendo di rimorsi per il bene mancato nei confronti di quella persona, accecato dall’odio.

     Il “domani” risulta talora essere soltanto retorica scusa per chi vuol prender tempo, abbandonando le responsabilità di quel pezzo di mondo che ci compete e che abbiamo il dovere di migliorare.

Dovere di migliorare e migliorarci.

Invece i nostri giorni sono intrisi di pura ricerca affannosa, pur restando sempre in fondo a questa storia che ci sembra troppo grande per la nostra vita.

Nei miei anni ho imparato che vola solo chi osa farlo.

     In nessun caso dire mai… il tempo perduto dalle due famiglie, per ironia della sorte riunite da un’atroce guerra, divenne tempo di meraviglioso rispetto ed amore reciproco.

     Franz riprese la sua carriera di avvocato, ancor più impegnato in molte cause poco o niente retribuenti ma difendendo diritti negati alla gente operaia, che non poteva difendersi con la voce del denaro.

Questa sua scelta lo fece crescere sempre più come uomo e legale.

Ester, invece, riprese ad insegnare nella ricostruzione post-bellica.

Oltre all’istruzione infondeva la voglia di un vivere diverso, fatto di pace e di fondamenti che solo uno sguardo profondo come il suo poteva educare.

Raccontava a volte qualche breve esperienza personale. Troppo poco per quello vissuto… non voleva, non poteva andare oltre.  

     A livello mondiale, intanto, la fine della guerra fu caratterizzata da grandi speranze; enormi masse scoprirono i valori dell'emancipazione e dell'uomo, della indipendenza politica, della democrazia e della libertà.

     La costituzione dell'Organizzazione delle Nazioni Unite sembrò concretare queste speranze e riaffermare la volontà di pace tra i popoli.

     La “guerra fredda”, nata all’inizio degli anni ‘50 come contrapposizione tra i due grandi blocchi di influenza mondiale, U.S.A. e U.R.S.S. , venne poi supe­rata dalla strategia della “coesistenza pacifica”.

    

Nell’Ottobre 1947 nacque il piccolo Thomas Streicher.

I nonni questa volta litigavano per chi desiderava tenerlo di più…! E tutto si risolveva puntualmente nello stare insieme!

Il piccolo cresceva tra le “biricchinate” e la voglia di correre, fino all’adolescenza nei famosi anni ’60, quando la cultura della contestazione, dalla fine della seconda guerra mondiale, interessò soprattutto il mondo giovanile. Si manifestò sia in America che in Europa con atteggiamenti ribellistici, provocatori, anticonformistici e trasgressivi, dove la moda identificata con jeans e maglioni sdruciti, scarpe da tennis o di corda, occhiali scuri e medaglioni attorno al collo, con capigliatura tendente a coprire le orecchie, ne era un esempio lampante.

     Thomas divenne attivista di un gruppo che si faceva chiamare  “beat good generation”, in cui decine di adolescenti approvavano gli USA, simbolo dalla libertà e della giustizia contro le barbarie naziste; pur vivendo, tuttavia, sotto il minaccioso incubo del rischio di un conflitto nucleare.

     Si consideravano “beat good generation” perché il loro movimento, pur accostando i medesimi ideali della “beat generation” (principalmente identificati nella contestazione del sistema borghese capitalistico e nell'ansia per un futuro su cui pesava il pericolo di una guerra atomica e il  violento  scontro  generazionale), non condivideva un certo stile di vita.

La “beat generation”, infatti, esprimeva il “rifiuto” del sistema con un atteggiamento nel quale confluiva in primo luogo ribellione, manifestata attraverso la scelta di un'esistenza vagabonda sulle strade, libertà sessuale, rinunzia, voglia di una vita sfrenata e senza regole.

     Si trattava di un’espressione volutamente passiva, che non si proponeva di abbattere le istituzioni per stabilirne altre più consone alle esigenze dell'uomo, ma contrapponeva alla falsità della società borghese, la chiusura in un proprio mondo solitario, del quale fanno parte solo coloro che condividono gli stessi ideali.

     Thomas, robusto ragazzo dagli occhi castani e lunghi capelli neri, divenne un influente portavoce di quegli ideali, ma incarnando un’espressione di vita composta ed educata.

     Si innamorò di una sua coetanea unendo anche una voce femminile ai suoi principi, ed intraprese studi economici pur essendo particolarmente affascinato dalla letteratura e dalla filosofia.

Pur di inseguire i suoi sogni, dopo gli studi superiori, e al fine di cominciare la carriera universitaria, decise di accettare un lavoro facoltoso favorito dal sostegno di suo nonno paterno.

     Fu dura ma andò avanti, diceva di lavorare per i grandi… quelli che credono che col “profumo del denaro” si può comprare tutto… ma allo sesso tempo non hanno capito il vero senso!

“Ciò che è dentro ognuno di noi non lo sapranno mai…”, continuava ad affermare!

     Non abbandonò mai i suoi ideali di lotta, il credere in Dio, e a coltivare i suoi hobby: musica, sport, scrittura e soprattutto amici.

Thomas si laureò con il massimo dei voti negli anni Settanta, che segnarono il punto di rottura con il tramonto della fragile e contraddittoria “società del benessere”, proprio quando sulla scena internazionale si cominciò ad assistere a profonde trasformazioni come la fine dei grandi imperi coloniali, l'evoluzione della scienza e della tecnologia, la messa del gigantesco affermarsi della “civiltà dei consumi”.



Le famiglie Grunspan e Streicher, fondarono in quel periodo un’associazione benefica di raccolta fondi per missioni umanitarie, organizzando non di rado manifestazioni solidali con altri gruppi di volontari e religiosi.

Quasi a voler dire che il nostro tempo, troppe volte, deve condurre su strade sporche prima di concepire veramente i valori di una storia così semplice.

Anche cuori malati da sentimenti inetti possono ritornare a vivere riscattando i propri errori, e la vita continua, perché deve continuare colorando con la propria esistenza le pareti della propria anima.

Perché i nostri istanti sono qualcosa di estremamente delicato, tanto da valer la pena investirli al meglio, magari dedicandoli a chi, prima di noi, ha dato esempio di come abbracciare nobili scopi regalando la voglia di essere ricordati “non per ciò che gli altri desiderano, bensì per quello che realmente ci scorre dentro al petto.”

La scena deve andare avanti certi che un mondo migliore è possibile, con la perseveranza, con la fede, col coraggio che ci deve contraddistinguere.

La paura della tristezza abbandoni i nostri cuori “regalandoci vita da vendere”.

Non ci crederete, ma i sogni possono diventare contagiosi…

L’amore vince sull’odio.



L’unica essenza scura che può permettersi di sporcare delle pagine bianche, è l’inchiostro di una penna che ha il coraggio di narrare la poesia dell’amore.

























































Prologo





Voglio concludere con poche immagini, poesie e una testimonianza, che si avvicinino a spiegare il significato di  tutto questo.

Se esiste una spiegazione, come di fronte a tutti i crimini di cui ormai quotidianamente siamo costretti a prender notizia.



Di seguito riporto alcuni termini gergali utilizzati  nel campo di Auschwitz.

In maniera analoga, anche molti altri campi di concentramento svilupparono termini simili, ma in questo approfondimento si fa riferimento esclusivamente a quelli utilizzati nel complesso di Auschwitz.







  • Block («blocco» o «baracca»): identificava le unità abitative ove alloggiavano i deportati, in condizioni di inimmaginabile sovraffollamento, costringendoli a dormire in 3-4 per ogni pagliericcio disponibile.



  • Blocksperre («chiudere i blocchi»): un ordine che imponeva a tutti i prigionieri di rientrare nei loro blocchi. Quest'ordine veniva impartito comunemente in vista di una selektion per evitare che gli internati vi si sottraessero.



  • Häftling («prigioniero»): termine che definiva l'internato. Spesso era utilizzato in associazione con il numero di matricola tatuato sull'avambraccio sinistro per identificare uno specifico prigioniero.  Ad esempio: Häftling 174.517.



  • Ka-Be (abbr. di Krankenbau): l'infermeria del lager.



  • Kapò: termine generico che indicava un detenuto che ricopriva una carica all'interno del campo e che spesso assumeva il comando su altri deportati.



  • Kommando: squadra di lavoro.





  • Muselmannmusulmano»),  Muselmänner: termine di origine ignota che indicava un prigioniero sfinito dal lavoro e dalla fame, senza più alcuna volontà di sopravvivenza, destinato alla selektion.



  • Prominent: prigioniero che godeva di una condizione privilegiata rispetto agli altri internati.



  • Selektion («selezione»): selezione tra gli abili al lavoro e coloro da inviare immediatamente alle camere a gas effettuata dal personale medico tedesco all'arrivo dei convogli di deportati.              Il termine indicava anche i periodici controlli medici effettuati all'interno del campo per selezionare ed eliminare i prigionieri più deboli (Muselmänner).

























































La storia del genere umano ha conosciuto innumerevoli eccidi e stermini.

Quello attuato in Europa nel Novecento contro gli ebrei differisce dagli altri per le sue caratteristiche di radicalità e scientificità.

     Mai era accaduto, ad esempio, che persone abitanti nell’isola di Rodi o in Norvegia venissero arrestate per essere deportate in un luogo (Auschwitz) appositamente destinato ad assassinarle con modalità tecnologicamente evolute.

     Per questo si parla di “unicità” della Shoah; definizione che costituisce il risultato di un riscontro storico.
     Shoah è un vocabolo ebraico che significa catastrofe, distruzione.

Esso è sempre più utilizzato per definire ciò che accadde agli ebrei d’Europa dalla metà degli anni Trenta al 1945, e in particolar modo nel quadriennio finale, caratterizzato dall’attuazione del progetto di sistematica loro soppressione.
     Tale pensiero venne deciso e concretizzato dal Terzo Reich nel corso della seconda guerra mondiale ed eseguito con la collaborazione parziale o totale dei governi o dei movimenti politici di altri Stati; ma interrotto dalla vittoria militare dell’Alleanza degli Stati antifascisti e dei movimenti di Resistenza. Se i vincitori fossero stati: la Germania nazista, l’Italia fascista, la Francia di Vichy, la Croazia degli ustascia etc., non un solo  ebreo sarebbe rimasto in vita nei territori da questi controllati.
     Ricordarsi di quelle vittime serve a mantenere memoria delle loro esistenze e della  ragione per cui vennero troncate.

     La memoria di questo passato deve aiutarci a porre solide  basi, al fine di costruire un futuro che non riporti mai più simili violenti ed inconcepibili accadimenti.
     Molti Stati hanno istituito un “giorno della memoria” e l’Italia lo ha fissato al 27 gennaio: data di liberazione, nel 1945, del campo Auschwitz I, pur se in effetti altri ebrei, d’Italia e d’Europa, vennero uccisi nelle settimane seguenti.
    La  Shoah fu ovviamente  un evento storico interrelato con gli altri episodi, tanto che la legge italiana indica altri gruppi di persone la cui memoria va mantenuta viva: coloro che, a rischio della propria vita, combatterono il nazismo, e coloro che comunque contrastarono lo sterminio salvando  molte  vite.

Elie Wiesel, ragazzo confinato ad Auschwitz a soli 16 anni ne “La notte” scrisse:



« Mai dimenticherò quella notte,

la prima notte nel campo, che ha fatto della mia vita una lunga notte e per sette volte sprangata.
Mai dimenticherò quel fumo.
Mai dimenticherò i piccoli volti dei bambini di cui avevo visto i corpi trasformarsi in volute di fumo

sotto un cielo muto.
Mai dimenticherò quelle fiamme che bruciarono per sempre la mia Fede.
Mai dimenticherò quel silenzio notturno che mi ha tolto per l’eternità il desiderio di vivere.
Mai dimenticherò quegli istanti che assassinarono

il mio Dio e la mia anima,

e i miei sogni, che presero il volto del deserto.
Mai dimenticherò tutto ciò, anche se fossi condannato a vivere quanto Dio stesso. Mai. »







Yakos Vincenko faceva parte del commando dell'Armata rossa che la notte del 27 gennaio 1945  liberò i campi di concentramento polacchi.

La sua testimonianza :

“L'alba non era ancora sorta quando spalancando le porte di una baracca vidi il primo scheletro vivente. Non avevo neppure vent'anni quando mi venne messa in mano una baionetta e fui mandato al fronte.

     Prima di quel giorno, l'orrore non lo conoscevo.
I deportati si sostenevano l'un l'altro per non cadere.

Alcuni ridevano, alcuni piangevano.

Altri cercavano di avvicinarci ma noi avevamo paura di toccarli.
     Il giorno dopo, facemmo in modo che si lavassero, demmo loro del cibo.

Erano così deboli che non riuscivano a camminare.
     Quaranta chilometri quadrati, occupati da 39 campi di lavoro, detenzione e sterminio, questo era il complesso di Auschwitz, Birkenau e Monowitz.    

     Come si è potuto arrivare a tanto?

Come si è potuto ridurre degli uomini ad un mucchio di pelle e ossa?

Trattati peggio che bestie.

La neve sciolta si mischiava alla terra diventando fanghiglia e loro la bevevano.

Ricordi da un inferno, impossibile da descrivere.



































A conclusione, mi interessa riflettere sul fatto che la mia è un’aspirazione non di cambiare la storia, ma del dovere di interrogarci sui sacri valori che ogni uomo si porta dentro, e di leggere la nostra vita in funzione di un progetto che ha un valore inestimabile.

Condanno Auschwitz, condanno i crimini rossi, condanno i crimini della Chiesa, condanno il potere come forma di tirannia.

Mi auguro il bene ed una vita da amare.







































Auschwitz





          





           






                        



















                      Auschwitz I - Il cancello di ingresso al campo







       Bambini liberati dall'Armata Rossa.

Bambini liberati dall’armata rossa.



















              Prigionieri nelle baracche dei lager

Prigionieri dei campi di concentramento

nelle loro baracche.





























































Ringraziamenti



Al termine del mio lavoro, il pensiero corre prontamente alle persone a me più care.

Voglio regalare questa immensa soddisfazione in primo luogo alla mia famiglia, fulcro della mia vita e di quella di ogni uomo, nucleo da cui spesso dipende un concetto sublime: la serenità.

A mia madre e mio padre.

A mia nonna e  mia sorella, le stelle della mia casa.

Ai miei amici che quotidianamente respirano la mia stessa aria, e a tutti gli altri fisicamente lontani, ma così indissolubilmente legati al mio cuore.

Alle spensierate risate, ai nostri stupidi commenti, al nostro straordinario legame.

Siete voi che continuate a regalarmi sorrisi, affetto, speranza, forza per andare avanti anche quando la vita si mostra  difficile, dura, poco accogliente.

E’ soprattutto in quei momenti che l’esistenza sembra regalare gente meravigliosa come voi, ed io sono stato  molto fortunato in merito. Ancora grazie dal profondo.

Ringrazio Stefania, perché mi è sempre stata accanto, godendo dei miei giorni migliori e abbracciando i periodi più bui con intensa umiltà, pazienza e amore.

Tutta l’Azione Cattolica gioiosamente parte della mia vita, gli amici sacerdoti, l’energia e i profondi sguardi dei ragazzi, così vogliosi di gridare al mondo i propri pensieri e la propria voglia di esserci.

Grazie a Linda, Giusy, Carla, Sandra e Concettina per avermi aiutato a ben sistemare diverse immagini e  frammenti del mio racconto.

Grazie a chi alimenta i miei sogni credendoci a volte più di me! Non avendo paura della tristezza che urla fuori, bensì accogliendo le melodie del nostro io.

Grazie a chi ha spinto la mia mano a concludere quest’opera per anni abbandonata in un cassetto.

Grazie al nostro Signore e a Maria nostra Madre.



Antonio F. Parisi













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